Squid Game

Nella serie tv sudcoreana “Squid Game”, ormai ufficialmente la più vista della storia di Netflix, uno dei personaggi più interessanti è una donna nordcoreana. E' giovane, silenziosa, violenta e non si fida di nessuno. Dal punto di vista occidentale, potrebbe avere il profilo un po' stereotipato della bad girl che ha sofferto e si vendica, ma per gli spettatori asiatici è diventata un'eroina.  Perché il personaggio di Kang Sae-byeok, interpretato dall'attrice e modella di Seul Jung Ho-yeon, si ribella allo strapotere che esercita su di lei il boss della criminalità, maschio e bullo, che la tratta come un oggetto di sua proprietà. E si ribella al sistema che vorrebbe fregarla, truffarla, che la costringe lontana dai genitori e dalla sua famiglia. In un’altra popolare serie tv coreana, “Crash Landing On You”, la ricchissima figlia del fondatore di una altrettanto ricchissima azienda sudcoreana prende il deltaplano e finisce per sbaglio in Corea del nord: incontra un soldato, impara l’amore e soprattutto si libera dai legacci della sua vita di privilegi, dentro a una gabbia dorata dove in realtà non si è mai sentita libera.

La donna in Corea

Il ruolo della donna, in Corea del sud come in tutti i paesi dell’Asia orientale, è ancora quello tradizionale, legato ai valori del confucianesimo: le donne sono importanti, certo, ma hanno una posizione ben definita all’interno della cornice familiare, un ruolo molto diverso – e di sicuro inferiore – rispetto a quello degli uomini. Negli ultimi anni, grazie alla globalizzazione, all’istruzione e all’ineluttabile trasformazione della società, qualcosa sta cambiando anche nelle donne asiatiche. Che pur non avendo mai vissuto una vera “rivoluzione femminista”, hanno di certo più consapevolezza, e vogliono far sentire la loro voce. Se diamo un’occhiata da vicino alla Corea del sud, si nota una contraddizione di fondo: il paese è in perenne guerra diplomatica con il Giappone per la questione delle “comfort women”, le donne usate dall’Esercito imperiale durante la dominazione nipponica per soddisfare i bisogni sessuali dei soldati. Il principio per il quale il governo di Seul si mobilita, le fondazioni alla memoria organizzano manifestazioni, si firmano lunghi editoriali ormai da decenni chiedendo le scuse formali da parte di Tokyo, è che si vuole ridare dignità a queste donne, ormai molto anziane oppure già decedute, una dignità violata nel periodo bellico dal violento occupatore. Un principio sacrosanto. E poi però, dall’altra parte della città, le donne più giovani, le Millennial sudcoreane, sono costrette a scendere in piazza per settimane per domandare all’esecutivo di proteggerle, magari con una legge, e garantirgli un diritto semplice, immediato: poter usare i bagni pubblici.

E’ una questione di cui si è parlato pochissimo in occidente, ma che in Asia orientale ha riempito le pagine dei giornali e occupato la discussione pubblica per mesi.  Nell’agosto torrido del 2018, centinaia di migliaia di donne hanno manifestato quasi ogni fine settimana, indossando una maglietta rossa, per chiedere di fermare il fenomeno del molka, cioè le telecamere nascoste praticamente ovunque, nei bagni, nei camerini, sulle scale mobili, che riprendono le donne nei loro momenti più intimi.

Di quei video c’è un mercato gigantesco, solitamente nel dark web o nelle chat di messaggistica, e nonostante questo, quando qualche donna riesce a denunciare, le indagini vanno sempre a favore degli uomini. Dopo quelle manifestazioni, ben prima del movimento mondiale del #MeToo che ha solo lambito la Corea, il dibattito si è acceso anche a livello pubblico. Da tempo le donne subivano la violenza di essere riprese senza che le autorità o la magistratura si muovessero, e ora il muro di omertà era caduto. Il governo del democratico Moon Jae-in, ex avvocato dei diritti umani, ha provato a cambiare le cose, anche se in modo un po’ timido: sono iniziate le periodiche bonifiche dei luoghi pubblici, con tecnici alla ricerca di camere nascoste nei posti più impensati, dai camerini dei centri commerciali alle toilette dei ristoranti. Il più delle volte sono più piccole di un bottoncino, e grazie alla rete internet veloce inviano le immagini direttamente online. Secondo la Bbc, tra il 2012 e il 2018 sono stati registrati più di 30 mila casi di spycam. Nel giro di pochi anni è stato istituito un team sul cybercrimine in ogni questura, e tra le decine di indagini aperte è arrivato anche il caso super mediatico: nel 2019 decine di celebrità, ragazzi di boyband coreane, attori e produttori sono rimasti coinvolti in una gigantesca inchiesta legata al nightclub del quartiere di Gangnam Burning Sun, che tutti frequentavano e dove quasi tutte le ragazze venivano filmate senza il loro consenso (ma tra gli altri reati c’è anche la molestia sessuale e lo stupro). Anche l’intoccabile mondo dello spettacolo viene colpito dalla giustizia. E tutto cambia.

Il Giappone e l'Eros

In Giappone, dove l’erotismo e la sessualità sono mondi complessi e difficili da sintetizzare, passeggiare per il quartiere di Akihabara a Tokyo significa vedere corpi femminili oggettificati ovunque.  Lì, come in Corea del sud, le donne non hanno vissuto un vero processo di emancipazione e sono ancora legate a una tradizione che non riesce a sbloccarsi. Di certo non sono più, nell’immaginario collettivo, le geishe o le maiko del Giappone tradizionale, la cui lunga e faticosa disciplina serviva soprattutto all’intrattenimento maschile. E’ ormai lontano il mondo raccontato dal premio Nobel Yasunari Kawabata. Eppure qualche elemento sopravvive, nella quotidianità e nel paese più vecchio del mondo, dove i giovani fanno fatica anche solo a immaginare di costruire una famiglia rifiutando certi modelli. La prima a cercare di cambiare le cose è stata Shiori Ito. Giornalista ventiseienne, il 3 aprile 2015 si sveglia in piena notte in una stanza d’albergo che non riconosce: la sera, aveva avuto un appuntamento con il famoso giornalista tv Noriyuki Yamaguchi, biografo dell'allora primo ministro giapponese Shinzo Abe. Era un appuntamento professionale, non privato, eppure dopo qualche bicchiere Yamaguchi la porta nella sua stanza d’hotel e abusa di lei. Per molto tempo, la storia di Shiori Ito non viene neanche presa in considerazione dalle forze dell’ordine: secondo i dati del governo, oltre il 95 per cento degli episodi di violenza sessuale in Giappone non viene segnalato alla polizia, perché anche solo parlarne crea imbarazzo e l'opinione pubblica spesso tende a incolpare la vittima piuttosto che l'aggressore. Fino a una riforma del 2017, a configurare un reato era soltanto lo stupro. Nel paese del Sol levante ancora oggi esistono, negli orari di punta, le cosiddette “carrozze rosa” della metropolitana o dei treni locali. Servono a prevenire il fenomeno dei chikan, i molestatori che allungano le mani quando il vagone è pieno – non esiste una sola ragazza in Giappone che non abbia ricevuto certe attenzioni. La vergogna, il silenzio e la necessità di cambiare le cose è ancora più evidente se si pensa che una delle applicazioni più scaricate in Giappone è quella del dipartimento di polizia, che si chiama DigiPolice e ha una funzione particolarmente sfruttata: denuncia al posto vostro la presenza di un molestatore nella carrozza. Così una ragazza non deve subire quella che considererebbe un’umiliazione, cioè chiedere aiuto e denunciare, ma ha uno smartphone a portata di mano per farlo.

La storia di Shiori Ito

Per questo la storia di Shiori Ito, nel Giappone contemporaneo, è stata rivoluzionaria. La giornalista decide di non tacere, e anzi inizia ad andare in televisione e parlare della sua esperienza. Scrive perfino un libro, “Black Box”, che è stato tradotto in decine di lingue. Nel dicembre del 2019 vince la causa contro il potente Yamaguchi, e il governo giapponese annuncia ulteriori modifiche al codice penale.

E’ stato proprio Shinzo Abe a lanciare, nell’ambito delle sue ricette economiche per rivitalizzare il Giappone, la strategia della “womenomics”: riportare le donne a spendere, e soprattutto a lavorare. Un progetto ambizioso, ma mai così tanto difficile: le donne nipponiche non possono lavorare perché gli viene chiesto di scegliere tra la carriera e la famiglia, ma è anche l’ambiente di lavoro, spesso, a essere faticoso per le femmine. Nel 2020 il Giappone ha approvato una “Legge per prevenire le molestie sessuali sul lavoro”, era l’ultimo paese sviluppato a non avere una norma che punisse comportamenti offensivi e discriminatori da parte di un datore di lavoro nei confronti di un sottoposto.

Quando i Giochi olimpici di Tokyo 2020, poi spostati al 2021, erano ancora lontani, a fare notizia era stata soprattutto una dichiarazione del presidente del comitato organizzatore, l’ex primo ministro Yoshiro Mori, di 83 anni, che aveva detto più o meno candidamente: “Le donne alle riunioni non ci devono stare, parlano troppo”. Era stato poi costretto alle dimissioni e sostituito da una donna, Seiko Hashimoto, ma gran parte dei media internazionali hanno preso quella frase di Mori per spiegare quanto in realtà la cultura maschilista e misogina fosse ormai radicata nelle vecchie generazioni nipponiche. Secondo il Global Gender Gap Report 2020 del World Economic Forum, il Giappone si trova al 121° posto su 153 in termini di parità di genere, “con un calo di ben 11 posizioni rispetto alla classifica di un anno prima, quando si classificava al 110°, e un calo di 41 posizioni rispetto al rapporto del 2006. Sulla base della classifica attuale, il divario di genere in Giappone è il più grande tra le economie avanzate”. All’inizio di agosto un uomo di 36 anni è stato arrestato e accusato di tentato omicidio per aver aggredito con un coltello i passeggeri di un treno sulla linea Odakyu di Tokyo. Nell'attacco sono rimasti feriti quattro donne e cinque uomini, ma poco dopo l’uomo ha detto alla polizia: “Volevo uccidere tutte le donne che sembrano felici". Uomini che odiano le donne: è anche per questo che il mito del “Giappone sicuro” è a rischio. Lo è per tutti forse, un po’ meno per le donne.