Se la crescita economica del Calcio non conosce soste, in una corsa che ha permesso a questa Sport Industry di conquistare un consenso planetario e un seguito di massa che ne fa uno degli strumenti di soft power più potenti - tanto da essere finita al centro degli investimenti di varie autocrazie, dal Golfo arabo alla Cina - i modelli di governance del calcio-business stanno assumendo tuttavia connotati molto diversi sulle due sponde dell’Atlantico. In Europa infatti si è andato affermando un oligopolio, con un nucleo di club sempre più ricchi e vincenti che stanno progressivamente riducendo le chance competitive degli altri team e che vedono in una SuperLega continentale il loro naturale approdo (al netto delle resistenze della Uefa). In direzione opposta a quella che è la filosofia degli sport professionistici americani, dalla Nba alla Nfl, che considerano invece la massima competitive balance come l’imprescindibile condizione per lo sviluppo sia della singola disciplina che delle franchigie e della Lega di riferimento. I numeri “europei” sono inequivocabili. L’ultimo rapporto finanziario Uefa pubblicato a gennaio 2019 testimonia di un calcio in cui aumentano a dismisura i ricavi delle squadre di massima divisione (dagli 11,4 miliardi di euro del 2008 ai 20,1 miliardi nel 2017) e gli utili (negli ultimi cinque anni, i club europei hanno generato oltre quattro miliardi di profitti operativi), ma in cui la forbice tra i big e gli altri team si sta ampliando inesorabilmente. I 12 club globali, delle vere e proprie “Sport media company” - 6 inglesi (United, City, Arsenal, Liverpool, Chelsea e Tottenham), 2 spagnoli (Madrid, Barcellona), 2 tedeschi (Bayern e Borussia Dortmund), uno francese (Psg) e uno italiano (Juventus) – ad esempio ottengono dall’area commerciale e dalle sponsorizzazioni 1,6 miliardi di euro, contro il miliardo scarso realizzato complessivamente dalle altre 700 squadre europee di prima divisione.

Fra le Leghe la regina incontrastata resta la Premier che fattura 5,3 miliardi, rispetto ai 2,9 miliardi totali generati dalla Liga, ai 2,8 della Bundesliga e ai 2,2 miliardi della Serie A.

Com’è stata possibile questa concentrazione di valore al vertice della piramide calcistica del Vecchio Continente? La deriva elitaria del calcio europeo è in realtà il combinato disposto di due fattori: il fair play finanziario imposto dalla Uefa e il meccanismo iper-meritocratico della Champions che attribuisce gettoni sempre più milionari a chi “frequenta” la Coppa. Se nel 2005/06 venivano distribuiti 430 milioni di premi ai club (cui è destinato il 75% delle entrate totali ottenute da tv e sponsor), nell’edizione 2016 il montepremi assegnato alle società è stato di 1,2 miliardi e nel 2018 è balzato a quota 2 miliardi. I ricavi dei club per premi Uefa sono così saliti del 228% negli ultimi 10 anni, rispetto a un aumento complessivo di fatturato del 77% e a un aumento degli introiti per diritti televisivi del 113%. La Coppa dei campioni in cui si sfidavano le squadre vincitrici dei titoli nazionali è stata sacrificata, alla fine degli anni ‘90, sull’altare dei soldi, delle televisioni e degli interessi geopolitici di una Uefa sempre più accentratrice. La riforma “democratica” voluta nel 2007 dal presidente Michel Platini per assicurare che almeno cinque squadre appartenenti ai paesi classificati dal dodicesimo posto in giù del ranking potessero accedere ai munifici gironi della Champions (i play-off sono stati riorganizzati in modo che si affrontassero da un lato del tabellone i 10 club “campioni” dei propri paesi e dall’altro lato i 10 club “piazzati” nei campionati più prestigiosi) è però sostanzialmente fallita. Anche se hanno avuto l’onore di giocare nei gironi della massima competizione continentale oltre 100 squadre, quasi la metà non è stata in grado di qualificarsi più di una volta. Chi si ricorda dell’Afc Unirea Urziceni, del Thun o dell’Anorthosis Famagosta? Al contrario, ci sono club inamovibili o quasi in Champions, come Real Madrid, Barcellona, Arsenal, Chelsea, Bayern Monaco e Manchester United. Tra il 2000 e il 2018 le quattro squadre più ricche d’Europa hanno alzato al cielo la Coppa dalle Grandi Orecchie 12 volte. Nelle precedenti 15 edizioni della Coppa dei campioni, dall’85 al ‘99, l’albo d’oro era stato molto più variegato: Juventus (nella tragica notte dell’Heysel e nel ‘96), Steaua Bucarest, Porto, Psv, Stella Rossa Belgrado, Barcellona, Marsiglia, Ajax, Borussia Dortmund, Real e Manchester United. Il team più vincente, in quel periodo, è stato il Milan capace di inanellare cinque finali, vincendone tre. La storia della Champions League, dunque, insegna che più si vince e più si è ricchi; e più soldi si incassano più è probabile che si continui a vincere. Un circolo virtuoso per chi domina, vizioso per i club tagliati fuori.

Il fair play finanziario Uefa, d’altro canto, se ha permesso di ridurre le perdite dei club imponendo di spendere solo quanto incassato in un regime caratterizzato dall’autofinanziamento, ha determinato una cristallizzazione delle gerarchie. E senza correttivi, come ha reclamato di recente anche il vicepresidente della Fifa Zvonimir Boban, sarà impossibile invertire il trend. La Uefa sa che occorre fare qualcosa: se a vincere sono sempre gli stessi, salvo sporadiche eccezioni, a differenza di quel che accade negli sport made in Usa, si rischia di corrodere l’appeal del prodotto calcio. La risposta ipotizzata con l’Eca, l’associazione dei club europei guidata da Andrea Agnelli, è quella di una SuperChampions da lanciare nel 2024. La formula è allo studio.

Non sarà una Lega “chiusa” sul modello Nba. Ma ci sarà un nucleo forte di squadre che per soldi, blasone e strutture avrà una sorta di licenza pluriennale in modo da aver garantito il posto. Il ragionamento dei vertici del calcio europeo è semplice: se la Champions che interessa tre miliardi di persone nel mondo incassa solo 3,2 miliardi all’anno e gli sport Usa che hanno molto meno seguito il doppio se non il triplo, significa che il prodotto calcio europeo è venduto male.

Si vuole perciò costruire un torneo fra big e altre squadre ammesse a rotazione (con parametri da definire) che possa generare proventi raddoppiati o triplicati, diffuso a livello mondiale in maniera capillare e dove scendano in campo solo i calciatori più dotati. La prospettiva, in estrema sintesi, è quella di avere più match tra le big durante da stagione (banalmente, più Juventus-Barcellona e meno Juventus-Chievo), magari giocati nel weekend con lo spostamento dei campionati nazionali al mercoledì. Per l’Italia in effetti hanno già un posto “prenotato” Juve, Inter e Milan. I club minori potranno confrontarsi invece nell’Europa League e nella terza competizione riservata alle Federazioni più piccole che potranno beneficiare economicamente della “solidarietà” della SuperChampions (come in parte avviene già oggi). Nonostante questo deflusso di risorse verso i club medio-piccoli, e tenuto conto dell’attuale regime di fair play finanziario, sarà ancora più difficile che questi ultimi possano un giorno colmare il gap di competitività con i team “nobili”.

Sull’altra sponda dell’Atlantico il Soccer appare in forte ascesa. La Major League, la cui istituzione venne imposta dalla Fifa per la concessione dei Mondiali del 1994, dopo varie false partenze sta vivendo un’epoca di rilancio, sulla scia dell’interesse per il soccer esploso a livello giovanile e femminile (al netto del flop per la mancata qualificazione alla Coppa del mondo 2018 in Russia) e di un’organizzazione imprenditoriale che mixa le regole di gestione delle altre leghe professionistiche Usa con le prerogative del calcio europeo. Non a caso la Fifa ha assegnato agli Stati Uniti, insieme a Canada e Messico, i mondiali di calcio del 2026, che saranno i primi allargati a 48 squadre (salvo ripensamenti della Fifa di Gianni Infantino che potrebbe anticipare l’allargamento all’edizione del 2022 in Qatar) con 80 match da disputare in Nord America.

È lontano insomma il ricordo del primo nefasto tentativo di importare il calcio Oltreoceano quando i Cosmos di New York negli anni ’70 arruolavano con compensi strabilianti stelle come Pelé, Chinaglia e Beckenbauer, con pessimi riscontri di pubblico e trascinando la North American Soccer League al dissesto. Il nuovo campionato di calcio a stelle e strisce si sta evolvendo al contrario con una logica che cerca di coniugare espansione commerciale e sostenibilità finanziaria. E da qui ai prossimi dieci anni potrebbe diventare un serio competitor delle principali Leghe europee. Basta scorrere l’elenco delle aziende multinazionali accorse a sponsorizzare la Mls in questi anni: At&t, Budweiser, Castrol, Continental tires, EA Sports,  Etihad, Gatorade, Kraft, Panasonic, Pepsi, Red Bull, Visa, Volkswagen, Wells Fargo, Windows, Xbox e Heineken. Nel 2017 l’accordo con Adidas, fornitore tecnico unico dei team, è stato prolungato fino al 2024 per la cifra record di 700 milioni di dollari in sei anni e lo scorso agosto ai partner commerciali si è aggiunta Audi con un’intesa valida fino al 2022 per una cifra superiore ai dieci milioni di dollari a stagione. Audi sarà anche title sponsor dei playoff per l’intera durata del contratto e affiancherà il proprio nome al servizio di statistiche in tempo reale introdotto nelle partite di campionato. Quando alle tv, se in principio era la Mls a dover pagare per mandare in onda le gare, l’accordo per la cessione dei diritti televisivi, siglato a maggio 2014, vale 630 milioni di dollari. Ad aggiudicarsi la trasmissione “domestica” dei match sono state ESPN, Fox Sports e Univision Deportes. Per dare un maggiore risalto alla Mls nell’accordo valido fino al 2022, sono previste anche iniziative congiunte fra le tre piattaforme. Più nello specifico ESPN e Fox Sports pagheranno 37,5 milioni a testa ogni anno, Univision (lingua spagnola) 15 milioni. I precedenti contratti, relativi alle annate 2007-2014, non superavano i 184 milioni di dollari. C’è stato dunque un incremento del 250%, anche se l’audience in tv delle partite non è ancora a livelli soddisfacenti. A differenza delle presenze negli stadi. La media di affluenza in questi anni per gli incontri della Mls nella regular season ha superato i 22mila spettatori (con picchi anche di 40mila per i play-off) ed è cresciuta del 60% rispetto ai 13mila spettatori del 2000. La Mls insegue soltanto la Bundesliga, la Premier League, la Liga spagnola, la Liga MX messicana, la Super League cinese e la Serie A, e supera negli States sia la Nba che la Nhl (la Nfl invece conta su 67mila spettatori di media e la Mlb su 31mila tifosi presenti sugli spalti a match).

Anche il fatturato complessivo della Mls è in crescita, anche se di utili se ne fanno ancora pochi. Nel 2012, secondo le stime di Forbes, il giro d’affari della Lega sfiorava i 500 milioni di dollari. I ricavi totali nel 2018 hanno raggiunto invece i 763 milioni di dollari. Nel 2017 sono state registrate entrate dagli sponsor per 346 milioni di dollari (+4,1% rispetto al 2016). Il valore delle 23 franchigie per Forbes è arrivato a 5,5 miliardi di dollari. Cifre ancora lontanissime rispetto a quelle delle franchigie del football americano della Nfl e al basket Nba che hanno ricavi rispettivamente per 14 e 6 miliardi di dollari e anche rispetto a quelle delle Leghe calcistiche europee di punta.

Ma la rincorsa è decisamente avviata. Anche perché molte delle franchigie della Mls hanno proprietà dalle grandi potenzialità finanziarie. Il New York City fa parte del City Football Group dello sceicco Al Mansour, già proprietario del Manchester City, e i New York Red Bulls della costellazione sportiva della Red Bull. I Los Angeles Galaxy sono di proprietà di AEG (Anschutz Entertainment Group), gigante dell’entertainment sportivo e musicale. Il presidente della franchigia Philip Frederick Anschutz è tra i fondatori e principali investitori della Major League Soccer, avendo acquisito la sua prima squadra nel 1996, i Colorado Rapids, per poi potenziare la divisione sport e intrattenimento della Anschutz Corporation attraverso l’acquisto di squadre di altre discipline come i Los Angeles Kings nell’hockey. È sangue blu sportivo anche quello che scorre nelle vene dei Colorado Rapids, il cui principale azionista è Stan Kroenke, già proprietario del pacchetto di maggioranza dell’Arsenal oltre che dei Denver Nuggets (Nba), dei Colorado Avalanche (Nhl) e dei St. Louis Rams (Nfl).

Per migliorare le proprie performance economiche la Mls, ad ogni modo, ha dovuto ripensare in corso d’opera alcune regole della propria governance. Al debutto, nel 1996, la Mls aveva stabilito un tetto massimo alle spese per gli ingaggi. Il salary cap incideva sia sul compenso per il singolo giocatore, sia sul totale del monte ingaggi. Di fatto, un club poteva avere in rosa da 18 a 20 giocatori che concorrevano al raggiungimento del budget salariale e ingaggiare fino a un massimo di altri 10 calciatori, a condizione che rientrassero nel programma giovanile della lega (quindi under 25) o che fossero cresciuti nel club stesso. Limiti di spesa che hanno impedito di acquisire giocatori di primo livello per incrementare il fascino del torneo. Inoltre, l’interesse degli americani per il campionato in quella fase non è decollato anche per l’uso degli impianti delle squadre di football americano, sovradimensionati per il soccer. Né suscitavano appeal alcune prescrizioni dirette ad "americanizzare" la manifestazione: dalle partite con il tempo effettivo agli shootout in caso di pareggio. Queste regole sono state abrogate al termine della stagione 1999. Anno in cui è stato inaugurato il primo stadio dedicato al calcio, il Columbus Crew Stadium e Don Garber ha sostituito Doug Logan come commissioner nel ruolo di presidente/amministratore delegato della lega, sul modello Premier. All’inizio degli anni Duemila sono state anche modificate le norme sulla gestione dei proventi da sponsor, diritti tv e acquisto di biglietti. Tuttavia, è stato il 2007 l’anno della svolta. La Mls ha travalicato i confini statunitensi con l’adesione di Toronto di proprietà della Maple Leaf Sports & Entertainment – oggi nella Mls militano altri due club canadesi, i Montreal Impact di Joey Saputo, proprietario in Italia del Bologna, e i Vancouver Whitecaps - e ha introdotto la “Designated player rule”, ovvero una deroga al sistema del salary cap che ha subito consentito di ingaggiare una star come David Beckham ai Los Angeles Galaxy che ha attirato l’attenzione dei media globali. In sostanza, tre “top player” per squadra concorrono solo parzialmente al raggiungimento del tetto salariale collettivo e possono liberamente concordare con il club l’ingaggio. Sono così sbarcati negli Usa campioni come Henry, Nesta, Pirlo, Villa, Giovinco (acquistato a gennaio 2015 dal Toronto con un contratto quinquennale da 7 milioni di dollari a stagione), icone del calcio inglese come Lampard e Gerrad, fino al fuoriclasse svedese Zlatan Ibrahimovic.

La Mls conserva, per altri versi, un’organizzazione diversa dalle leghe europee, in quanto la gestione dei contratti dei giocatori e delle licenze dei club è centralizzata, secondo il sistema delle franchigie. Inoltre, attraverso la controllata “Soccer United Marketing”, la Mls gestisce in esclusiva le sponsorizzazioni e le operazioni di commercializzazione dei diritti televisivi. Come accade negli altri sport professionistici americani, poi, ogni anno le squadre possono selezionare i calciatori appena diplomati nei college. Il draft si svolge in diversi round in cui ogni squadra, a turno, sceglie un calciatore in ordine inverso rispetto al piazzamento in classifica (ma i club possono accordarsi per scambiarsi i turni inserendo in tali trattative contropartite economiche o tecniche). Ogni club poi ha sì un investitore-proprietario, ma quest’ultimo possiede un interesse finanziario su una quota della Lega stessa, non sulla singola franchigia. Questo modello, denominato “Single entity” è servito per evitare che, come accadeva nei primi anni di vita del campionato, pochi proprietari possedessero più di un team. Nel 2018 si è svolta la ventitreesima edizione del campionato (la manifestazione va da marzo a dicembre). Il numero di squadre partecipanti è aumentato da 22 a 23, con l’ingresso di Los Angeles FC. Nel 2019 debutterà l’FC Cincinnati che giocherà le partite casalinghe al Nippert Stadium. L’obiettivo della Mls è di schierare 28 club entro il 2022.

Le squadre sono divise in “Western Conference” e “Eastern Conference”, in base alla loro posizione geografica. Nella stagione regolare ognuna incontra una volta le squadre dell’altra conference e più volte quelle della propria. Nella stagione 2019 ai playoff accederanno 14 squadre e non più 12 come nelle precedenti stagioni. La volontà è quella di far disputare la fase ad eliminazione diretta ad almeno il 50% dei club una volta che la lega sarà composta da 28 squadre (attualmente sono 24), così come avviene in Nba (53%) e nella Nhl (51.6%). Il tabellone sarà fisso senza sorteggio e con accoppiamenti sulla base del piazzamento. Il passaggio al turno successivo verrà conteso non più con doppia sfida ma con partita secca, disputata in casa del club che meglio si è classificato nella regular season. I campioni delle rispettive Conference inizieranno invece la propria corsa al titolo dalla semifinale, affrontando la vincente della sfida tra quarta e quinta classificata. Inoltre, a differenza degli anni passati, il playoff si svolgeranno in tre settimane, dal 19 ottobre al 10 novembre, data in cui verrà assegnata la Mls Cup.

Non solo novità regolamentari, però, ma anche la presenza di nuovi stadi renderà più appetibile il prodotto della Mls. Il percorso di crescita della lega americana è infatti passato in questi anni, e non poteva essere altrimenti, dal rinnovamento e dalla sempre maggiore attrattività delle strutture, (oggi più della metà dei club ne possiedono uno ad hoc). Chiaro esempio, è il Mercedes-Benz Stadium costato 1.6 miliardi di dollari che dal 22 ottobre 2017 ospita le partite dei campioni in carica dell’Atlanta United FC (e degli Atlanta Falcons della Nfl). Di recente costruzione è anche l’Audi Field di Washington D.C. nel quale dal 2018 gioca le proprie partite casalinghe il DC United, per la cui costruzione sono stati necessari 400 milioni di dollari (suddivisi tra municipalità con 150 milioni ed investitori del club per i restanti 250). La casa automobilistica tedesca ha acquistato il naming rights per una cifra di 4 milioni di dollari l’anno per 10/15 anni. Il 13 aprile, in tempo per la nuova stagione, sarà invece inaugurato l’Allianz Field dei Minnesota United FC nella partita contro i New York City FC. Lo stadio, finanziato dai proprietari del club, è costato 150 milioni di dollari ed avrà una capacità di 19.400 spettatori. Il naming rights sarà prerogativa della compagnia assicurativa per 12 anni. Altro club in procinto di costruire la propria casa è l’Inter Miami CF della cordata guidata da David Beckham. Il club della Florida, che prenderà parte alla sua prima stagione della MLS nel 2020, dopo svariate trattative, ha individuato l’area di Melreese, vicino all'aeroporto internazionale di Miami quale sede ideale per l’impianto. La concessione dell’area per 99 anni è stata sottoposta a referendum da parte del municipio ed approvata con il 60% dei voti. Ultimo passaggio per dare inizio alla costruzione dell’innovativo impianto da 25.000/28.000 posti, parco e complesso commerciale è l’approvazione da parte dei commissari municipali. Prima che l’impianto sia pronto, il club sarà ospitato nel Marlins Park casa dei Miami Marlins, della Major League Baseball. Anche il Nashville, che come l’Inter di Miami prederà parte alla stagione 2020, costruirà il suo impianto da 30.500 posti e 275 milioni di dollari. I costi saranno in gran parte sostenuti dalla città (225 milioni) attraverso dei revenue bonds. Lo stadio che sarà pronto per il 2021 sorgerà nella zona fieristica, di proprietà della municipalità, e sarà locata al club per 99 anni al costo di 200,000 dollari l’anno. La prima stagione, il club del Tennessee sarà ospite presso il Nissan Stadium dei Tennessee Titans (Nfl). L’Austin FC, che entrerà nella lega a partire dal 2021, un anno dopo l’Inter Miami e il Nashville, ha già ottenuto invece l’approvazione per la costruzione del proprio impianto. Lo stadio, che avrà 20,000 posti a sedere costerà 225 milioni di dollari e sarà interamente finanziato dalla Precourt Sports Ventures.

Come nelle altre leghe americane non sono previste retrocessioni o promozioni. Anche se su questo aspetto potrebbe esserci in futuro qualche novità. La North American Soccer League (Nasl), la seconda Lega di soccer americana, da tempo contesta la legalità della “chiusura” della Mls e soprattutto i parametri di selezione del livello dei campionati professionistici che la Ussf, la Federazione calcistica degli Stati Uniti d’America ha varato e che secondo la Nasl favorirebbe la Major League soccer in violazione delle leggi antitrust. In Usa non essendoci sistemi di promozione/retrocessione, il livello delle Leghe viene, di fatto, definito dallo status che attribuisce loro la Ussf. La Federazione che ha un potere disciplinare sulle Leghe determina in quale Divisione le stesse rientrano in base a fattori come il numero di squadre partecipanti, la grandezza dei mercati (quindi numero di cittadini, status socio/economico di quest’ultimi e potenziale di crescita) in cui competono le squadre, la capienza degli stadi e, infine, la capacità finanziaria. Al momento, la Mls è l’unica lega alla quale è attribuito lo status di Division 1, la Nasl l’unica in Division 2, e la Usl (United soccer league) l’unica in Division 3.

In attesa di una possibile riforma, la Mls si contraddistingue per l’accentuata concorrenza interna che esalta l’incertezza dell’esito finale dei match e del torneo. Un “valore” dello sport professionistico Usa che le regole d’ingaggio assorbite dalla Mls ha permesso quindi di impiantare anche nel soccer. L’opposto di molti campionati nazionali in Europa. L’ultimo campionato Usa è stato vinto dall’Atlanta United per la prima volta. Si sono laureati campioni degli Usa fin qui ben 13 squadre. La franchigia che ha trionfato più volte (cinque) è quella di Los Angeles, seguita dai Dc United (quattro) dell’ex presidente dell’Inter Erick Thohir.

Nel Vecchio Continente il campionato più incerto e più “americano” è quello inglese, in cui a regolamenti tipici del calcio europeo si associano criteri di distribuzione della ricchezza prodotta molto democratici, quasi in stile Usa. I parametri di ripartizione degli introiti tv sono i più equi del comparto calcistico, tanto che la prima squadra in Premier per ricavi media non può accaparrarsi più del doppio dell’ultima classificata. Nonostante i mal di pancia di qualche big i ricavi dalla vendita all’estero sono in effetti distribuiti in parti uguali, come il 50% dei proventi della vendita nazionale. Non a caso, i team della Premier League sono i più “freddi” verso l’ipotesi della Super Champions temendo di perdere lo status e i vantaggi acquisiti dal torneo d’Oltremanica, reputato ormai universalmente come il più bello e interessante del mondo. Alta competitive balance, con la possibilità che tanti club diversi possano aspirare alla vittoria, match mai scontati, appeal tv e ritorni economici vanni infatti di pari passo. E in Gran Bretagna non vorrebbero rinunciarci. Una lezione che forse a Nyon dovrebbero studiare prima di lanciarsi in avventure elitarie che di fatto potrebbero rivelarsi tutt’altro che idonee a conciliare la crescita finanziaria con una competitività diffusa. Un calcio trasformato in un’isola in cui possono vincere solo i più ricchi, lasciando minime chance agli esclusi, potrebbe essere alla lunga un suicidio per tutti i players. Un autogol clamoroso, da evitare anche a costo di rinunciare a rimpinguare i bilanci oltremisura.