La fantasia di Collodi è diventata realtà.

E, non a caso in quel di Faenza, patria della ceramica, qui oggetto delle ricerche dell’Istituto di Scienze e Tecnologia dei Materiali di cui fa parte il team guidato da Anna Tampieri. A loro si deve l’intuizione che ha reso possibile un grande sviluppo tecnologico: trasformare, con un processo chimico, un tronco di rattan (legno orientale molto flessibile e che non si scheggia) in un osso quasi vero. Anzi, proprio vero, al punto da essere accettato dall’organismo – oggi di una pecora, presto di un essere umano – come una parte naturale del corpo, permettendo così di sanare le conseguenze di gravi traumi o di un tumore osseo. Un successo scientifico che, naturalmente, non ha a che fare con alcuna Fata Turchina, ma è il risultato di un’avventura scientifica affascinante, che non solo promuove la ricerca italiana, cui la genialità non ha mai fatto difetto, ma è stata accompagnata, come capita troppo di rado, dalla creazione di basi finanziarie e di governance per dare un futuro industriale alla business idea con un obiettivo preciso: dar vita nel tempo a una partnership produttiva e commerciale con un Big delle scienze della vita. Ma guardiamo un po’ più da vicino l’attività di GreenBone Ortho, la startup che ha sviluppato le soluzioni innovative ad alta tecnologia per curare gravi patologie ossee. Un progetto che ha raccolto il forte interesse di importanti realtà come SIR (Sviluppo Imprese Romagna), IAG (Italian Angels for Growth) e altri investitori nazionali ed esteri, dediti al sostegno economico della neo-imprenditorialità. “Tutto è cominciato con il classico uovo di Colombo” dice il CEO Lorenzo Pradella. “Possiamo definire così” prosegue Pradella “l’intuizione che, nel 2006, ha spinto la squadra della dottoressa Tampieri a partecipare a un concorso europeo, con l’obiettivo di individuare in natura materiali non solo biocompatibili ma anche più adatti ed efficaci a dialogare con l’organismo.” Esiste qualcosa di simile, in natura, al  comportamento di un osso? Assolutamente sì, è stato il punto di partenza.

«Una pianta ed un femore svolgono in sostanza la stessa funzione: portano un peso e fanno passare dei vasi. Vasi linfatici in una pianta, vasi sanguigni nel corpo umano».

E se si parte dal principio che la natura è conservativa e molto spesso, come conferma l’occhio del nautilus, dà risposte simili a problemi analoghi, l’incognita era individuare in natura tipologie di legno con strutture simili, o molto simili, a quelle dell’osso. Messa così sembra semplice. In realtà, dietro l’intuizione c’è un know-how avanzato, profondo, ovvero “l’expertise del centro, un’eccellenza internazionale nella ricerca in ceramica, che ha consentito di sviluppare una tecnologia di prodotto e di processo, entrambi coperti da brevetti internazionali, che rende possibile prendere il legno, dargli la forma voluta e trasformarlo chimicamente senza perdere la sua struttura biologica fondamentale una volta che viene innestato nell’organismo”. Il primo passaggio consiste nell’esposizione del legno sagomato a temperature elevate in assenza di ossigeno, in modo da rimuovere la componente biologica lasciando la stessa struttura in carbonio. Il telaio di carbonio diventa così la base delle trasformazioni successive, sei in tutto. Il processo parte dal legno, di colore marrone, che viene virato in un composto bianco: il legno originale viene infatti trasformato in calcio fosfato, che sarà riconosciuto dall’organismo come una porzione ossea vera, da inserire in un turnover biologico naturale in cui la base di rattan viene metabolizzata, riassorbita e sostituita con nuovo osso che si va a formare.

Questo ciclo, che potremmo definire biologico, permette all’organismo di tornare in possesso di un osso vero e suo. Un procedimento rivoluzionario articolato in sei diversi passaggi, che del tutto paragonabile allo scenario attuale in cui il paziente può ricorrere, quando possibile, al cosiddetto trapianto autologo, ovvero il prelievo di una propria porzione ossea oppure di un osso prelevato da animali o da cadaveri opportunamente trattati, per arrivare, in ultima evenienza, a materiali di sintesi.

«A parte l’utilizzo di nostre ossa nessun altro sistema ha capacità rigenerativa che eviti problematiche in grado di ripresentarsi negli anni». GreenBone Ortho è diventata operativa all’inizio del 2015 all’interno dell’incubatore Torricelli di Faenza. La sperimentazione animale sulle pecore è stata sviluppata in Israele in stretta collaborazione con l’istituto Rizzoli di Bologna, che ha fornito la competenza ortopedica. La sperimentazione sugli esseri umani si articolerà invece in sei Paesi (Italia, Svizzera, Israele, Romania, Serbia e Bosnia).

I finanziamenti? La raccolta avviata sinora si è svolta in due fasi: ad un primo round per 3 milioni di euro nel 2015 raccolti da Zernicke Meta Venture e dai soci di Italian Angels for Growth (IAG) e da investitori privati italiani ed esteri,  ne è seguito un secondo da 8,4 milioni guidato da Helsinn Investment Fund, fondo corporate VC dell’omonimo gruppo farmaceutico svizzero da Invitalia Ventures SGR e Innogest SGR. Partecipano al round anche Italian Angels for Growth (IAG) e altri soci privati e dei fondatori. In tutto, per ora, 12,5 milioni di di euro, tutti facendo ricorso a capitali di rischio, senza indebitamento bancario. L’obiettivo? Il business plan prevede entro la fine del 2019 di completare lo sviluppo clinico, per poi associarsi in una partnership con una multinazionale che può assumere la formula di un’associazione commerciale, di un’alleanza finanziaria o della quotazione in Borsa. «Entro il 2020 - conclude Pradella – vogliamo portare ai nostri investitori il ritorno finanziario e vedere il primo prodotto sul mercato».

I pretendenti alla partnership già oggi non mancano. Il mercato, se si tiene conto anche dei problemi alla colonna vertebrale, può valere, a livello globale, 6-7 miliardi di dollari: GreenBone Ortho può aspirare a coprire nel giro di pochi anni una quota di almeno mezzo miliardo di dollari. Mica male per un Geppetto biotech