«Quanto tempo passerà tra l’ultimo minuto prima dell’intelligenza artificiale, e il primo dopo?».

Questa domanda, giocata con tono socratico, appartiene a Bruno Giussani, curatore di TED Global. Europeo, solidamente svizzero, notoriamente informato, Giussani ci lascia una domanda che non chiede una risposta, ma avvia un dialogo.

Di questo dialogo dobbiamo, mi si permetta l’ironia, parlare. Perché́ se le civiltà̀ sembrano faticare a parlarsi, e questa cosa fa paura, è spavento puro quello che abbiamo di fronte alla macchina. Perché́ la macchina, con noi, non parla. Non c’è dialogo. L’intelligenza artificiale non nasce parlante, ma agente.

Un sorriso sale alle labbra quando vediamo il goffo umanoide tanto caro a certa cultura orientale mentre prova a comunicarci la sua umanità̀. Ma guardiamo in faccia Otonaroid, la donna robotica parlante voluta dal musicista Damon Albarn come parte integrante del suo pubblico. L’idea di introdurre emozioni nei robot è, secondo uno dei più̀ celebri creatori giapponesi che ho avuto l’occasione di incontrare, Tomotaka Takahashi, un passo essenziale del progresso. Solo il rispetto per uno scienziato che ha messo un suo robot sulla International Space Station mi ha impedito di sorridere. Era meno di cinque anni fa, oggi mi sembra un’eternità̀, e quel sorriso oggi non l’avrei neanche immaginato.

Wittgenstein diceva che non può̀ esistere un linguaggio privato, o meglio se esistesse sarebbe inconoscibile, come il suono delle foglie che cadono. Oggi invece noi pensiamo alle macchine come parlanti una lingua incomprensibile “io non ci capisco di computer”, diciamo. E qui sta l’insidia. Ci ritroveremo consumatori di un’industria 4.0 fatta di macchine che si parlano meravigliosamente tra loro, con l’IoT e i connettori dati, i centri logistici e il self driving delivery, e torneremo a vivere di sole cose.

C’è una cultura dominante che ci vede irresponsabili delle creazioni tecnologiche che ci circondano. A un recente incontro con un pubblico di liceali ho passato in rassegna, per grande stupore dei ragazzi, le facce e le biografie personali degli inventori di Internet. Per il mio pubblico, Internet era un elemento della tavola periodica, o una stella, le cui origini sono essenzialmente divine. Gli ho spiegato che non è così, e che Internet è anche troppo umano. Molto politico persino, si regge su una società̀ intellettuale che discute, a volte si accapiglia, sui suoi principi, da anni, da sempre. In un certo senso, la creazione di Internet è stata l’ultima grande creazione umana consapevole che supererà̀ una generazione, come una cattedrale romanica.

Ho provato a spiegare ai ragazzi che noi – ma soprattutto loro - siamo responsabili del nostro futuro tecnologico. Su quelle macchine c’è un nome, come la targa di un’auto. Noi – la nostra classe politica, le nostre leadership - siamo la civiltà̀ che lascerà̀ quella cattedrale per chi ci segue. Facciamola grande e bellissima, sennò il nostro futuro tecnologico sarà̀ quello descritto da J. C. Ballard nei suoi libri: una guerra strisciante e permanente tra classi sociali, tra élite autoproclamate.

Diamo la parola alle macchine e poi parliamo loro. Ci sarà da ridere.