Hai paura a camminare su di un ponte o un su un cavalcavia? E a viaggiare da Milano a Los Angeles su un nuovissimo A-380 piuttosto che su un Boeing-767? È questa la domanda che si affaccia nella mente quando si è al cospetto dell’opera Afasia2; una struttura quasi aliena e quasi quotidiana, tra una bombola, un bomba e una pentola. In sostanza, acciaio e azoto compresso a 250 bar. Gira tra studio, gallerie e musei con una dichiarazione di conformità e sicurezza, e non sembra un’opera solo sulla paura, sulla percezione, sull’esplorazione del proprio limite del dolore e della tensione emotiva – un po’ come quello che deve provare un uomo sulla sedia delle torture, domandandosi appena prima che questa inizi, fin dove lo porterà la propria corteccia cerebrale e il proprio senso dell'astratto. Se questa lettura è legittima non appare l’unica, quanto piuttosto essere addirittura secondaria rispetto a una riflessione umanistica sul senso del sapere applicato, della tecnologia condivisa. Noi siamo al sicuro in base all’accezione comune che quella dichiarazione di sicurezza sia verificata e che l’ultima revisione compiuta sia andata a buon fine. Le storie degli uomini entrano sempre nelle maglie della tecnica: come quella del Boeing-747 611 della Air China, precipitato in mare tra Taipei e Hong Kong a causa dell’affaticamento del metallo che portò alla rottura della fusoliera per una riparazione meccanica eseguita troppo frettolosamente, senza seguire le linee guida della casa costruttrice. La materia si è squarciata come fosse cartapesta sotto il peso di altra materia e della cinetica: atmosfera e velocità. Molecole che disintegrano i reticoli di altre strutture molecolari. Qual è dunque il limite e quale il rapporto di forza tra il noi e la tecnologia che studiamo e che portiamo nella vita di tutti i giorni? Questa domanda è oggi uno dei pilastri fondamentali di quella che Asimov chiamò le “tre leggi della robotica” e che attualmente costituisce l’ordinamento che in modo del tutto organico e lussureggiante sta emergendo dalla digitalizzazione del dato, delle informazioni e dell’identità digitale contemporanea (fattispecie che qualcuno si diletta a chiamare privacy). Le opere di Arcangelo Sassolino portano fino a qui; il problema è il punto di partenza. Piuttosto lontano e atavicamente cardiaco: la materia. La stessa materia di cui è fatto un minerale oppure una lastra di ferro, la carne di un osso, un busto di marmo, ed infine il nostro tempo, sia quello che è convenzionalmente scandito dall’orologio che quello che appercepiamo noi come esseri e come storie umane, ognuno sensibile e irritabile a diverse misure e secondo diversi crinali emotivi. È questa deformazione dello spazio materiale e del tempo che obbliga a una domanda. Yukio Mishima diceva che la profondità è per i pusillanimi e che il limite a cui sospingersi è periferico, una sorta di estremità, anche sola, eremitica, come quella degli esploratori. E così D.P.D.U.F.A. è l’attesa di un’esplosione annunciata, quella di una bottiglia stretta nella morsa di un contenitore, una teca di acciaio e policarbonato, che, quasi come fosse un veleno, gli inietta gas fino alla deflagrazione. E se anche l’evento fosse annunciato da una qualche parola, come un fulmine che preannuncia sé stesso durante un temporale, questo evidenzierebbe non tanto e non solo il tempo in cui il vetro, stremato, arriva alla distruzione, quanto il tempo interno a noi stessi, stremati quanto il vetro, ad attendere la sua morte fisica. C’è una tensione tutta psicologica in questa attesa che scandisce il nostro limite, il nostro essere in grado di vivere quel displuvio tra uno stato delle cose che esiste ed un’esplosione che ne cambierà per sempre le fisionomie. È inutile nascondere, in definitiva, che tutti questi lavori, come damnatio memorie, una macchina quasi chirurgica, all'incirca una tomografia assiale computerizzata, che pialla un busto classico in marmo di Carrara, sculpture to modify the base, un oggetto, una trivella portatile, costruita per distruggere con movimenti pressori alto-basso per distruggere, modificare appunto, la base, la terra su cui camminiamo, vogliano costringere, annientare, trasformare, allargare la materia, gli intrecci molecolari della realtà. E questo ci connette con il nostro limite fisico, con la compiutezza dell’idea della forza, di una tempesta meccanico-tecnologica, con la sensazione atterrente di tutto questo strapotere. Eppure, a starci dentro, talune di queste riserbano un’anima melanconica che è forse del loro aspetto talvolta goffo, come un ragno che si apre e si richiude sulle sue zampe di ferro, quasi come macchine inutili, o forse come definitivi correlativi tra noi e il dispositivo. Accade di guardare madre e vedere questo motore di camion, immenso, gigantesco per le nostre misure mentali, borbottare, bollire come un uomo agli ultimi rantoli, che poi si riprende in un continuum tra lo spegnimento finale e un’accelerata da canto del cigno; oppure di fermarsi ad ascoltare cantoV, lunghe assi di legno sospese a un metro da terra in una morsa attaccata al soffitto che le flette, le stressa, le piega fino a un punto ancora accettabile, senza spezzarle. Non è però solo rumore di ossa e di sofferenza, non sembra una tortura fine a sé stessa, anche se a dirlo può sembrarlo. Alla fine di tutto è un canto: come se dal dolore potesse (e può) sgorgare bellezza.