Per una nuova lettura aggiornata dell’intervista di Massimiliano Nerozzi a Gian Piero Gasperini «Nada de nuevo, nada de diferente, nada de màs. Ovvero, storia di come e chi ha trovato una via per la vittoria» uscito per il numero III di Infinito nel luglio 2018. In quel contributo Gasperini ci raccontava del suo approccio al concetto di vittoria e di continua sfida, dallo sport alla vita. È così ancora oggi? È questa la domanda a cui risponde, in questo Infinito XIV, l’allenatore dell’Atalanta a Luigi Garlando parlando di successo e vittoria, a pochi mesi dalla fatata notte di Dublino.

 

Gian Piero Gasperini ha ragione: dire vittoria non basta. Per comprenderla fino in fondo, bisogna scomporla in due parti, come i due tempi di una partita di calcio: il successo e il risultato. Lasciamo che sia l’allenatore dell’Atalanta a metterli a fuoco: «Il successo è per pochi, è per chi vince, per chi arriva primo. Lo premiano, tutti lo acclamano e lo riconoscono come il migliore. E poi c’è il risultato, che si raggiunge ponendosi un obbiettivo e lottando contro i propri limiti per raggiungerlo. Raggiungerlo significa essere vincenti, anche se non si arriva primi. Nello sport, come nella vita. È vincente uno studente che porta a termine il suo piano universitario, è vincente un uomo che si pone come risultato il benessere della sua famiglia. Chi ha stabilito i parametri per cui una persona viene considerata vincente? In Serie A, una squadra sola vince lo scudetto, molte sanno che non lo vinceranno mai. Dobbiamo allora ritenerle tutte perdenti, tutte fallite? No, la vittoria non spetta solo al successo, ma anche al risultato».

Gian Piero Gasperini aveva già ragionato sul concetto di vittoria per la rivista Infinito, nel numero III del luglio 2018. Cos’è cambiato in questi sei anni? Alla luce della teoria appena illustrata, diciamo così: all’epoca Gasp (ndr. nickname abbreviativo spesso usato per indicare Gian Piero Gasperini) era un allenatore vincente, che aveva raccolto una serie di ottimi risultati. Oggi è un allenatore vincente che ha assaggiato anche l’altra metà della mela, il successo. Allora, nel 2018, era l’allenatore che aveva riprogrammato il destino di un club di provincia, l’Atalanta, abituata storicamente a lottare per restare in Serie A o per salirci dalle serie inferiori. Per il secondo anno consecutivo, l’aveva guidata nelle zone alte della classifica e l’aveva qualificata alle coppe europee. Oggi è l’allenatore che ha regalato all’Atalanta il suo primo trofeo internazionale, la Uefa Europa League, conquistata nella finale di Dublino del 22 maggio 2024. Che è anche il primo trofeo in assoluto dell’allenatore Gasperini. Ma il lungo cammino verso il successo non è stata un’attraversata del deserto, semmai un passaggio di oasi in oasi, di risultato in risultato, di vittoria in vittoria. Proviamo a ripercorrerne alcune insieme.

[Luigi Garlando] Gasperini, non è già una vittoria avere trasmesso all’Atalanta uno stile di gioco riconoscibile e apprezzato in tutta Europa?

[Gian Piero Gasperini] «Lo è. È un risultato. Dalla prima partita all’ultima, non abbiamo mai rinunciato al coraggio. Anche contro gli avversari più forti, non abbiamo mai giocato per non perdere, soltanto per vincere. Non dimenticherò mai l’applauso dei tifosi di Anfield alla fine della partita, anche se avevamo battuto il Liverpool. In Italia non è mai successo e questo mi spiace».

[LG] È stata una vittoria aver fatto volare il nome dell’Atalanta nel mondo.

[GPG] «Quello dell’Atalanta e quello di Bergamo che sono diventati una cosa sola. Abbiamo riscontri continui in Africa, in Asia, in America, in tutto il mondo di quanto siamo conosciuti, perché il calcio, trasmesso ovunque, ti assicura una visibilità e una popolarità incredibili. Nel mondo, Bergamo è l’Atalanta e l’Atalanta è Bergamo. È bellissimo. È un orgoglio».

[LG] Un orgoglio anche aver educato e valorizzato tanti giovani talenti.

[GPG] «Per tanti anni questo è stato il mio scudetto. Come allenatore, sono nato nel settore giovanile della Juventus e ho maturato una sensibilità particolare per i ragazzi. Vederli crescere, migliorare, magari partire e affermarsi in un grande club per me è una soddisfazione, la stessa di un insegnante che vede crescere i suoi studenti e poi affermarsi fuori dalla scuola. Se non riesci a godere di queste gratificazioni, di questi risultati, e pensi solo al successo, vivi male, da frustrato. Non esistono solo le coppe, ci sono anche le medaglie».

[LG] Una delle vittorie più belle è stata aver dato conforto alla gente di Bergamo, città martire del Covid, nel momento più duro.

[GPG] «La consapevolezza di rappresentare il dolore della nostra gente ci ha dato delle motivazioni eccezionali che ci hanno fatto andare oltre i nostri limiti. Non è un caso che l’Atalanta abbia toccato il punto più alto della sua parabola sportiva, i quarti di Champions League, a un solo minuto dalla semifinale, nell’anno più terribile per la città. Abbiamo battuto record su record, disputato campionati da 90 gol, quasi il tentativo di consolare con la bellezza tanto dolore. Erano morti dei nostri tifosi, lavoratori dell’Atalanta, parenti, amici. Tornato dalla trasferta trionfale di Valencia, presi il virus. Non sentivo più i sapori, ho trascorso una notte di paura a Zingonia, nel nostro centro sportivo, senza chiudere occhio, ascoltando le autoambulanze che passavano ogni cinque minuti. La mattina dopo, sono uscito a correre sul campo e da quella sudata ho cominciato a stare meglio. Josip Ilicic, ragazzo d’oro, sensibilissimo, ha sofferto più di tutti in quei giorni e si è smarrito. La squadra ha assorbito il dolore della città e ci siamo legati ancora di più».

[LG] E poi, Gasperini, dopo tanti risultati, è arrivato il successo: la coppa di Dublino, la partita perfetta contro il Bayer Leverkusen, 3-0. Ecco il trofeo da toccare. Primi, come capita a pochi, premiati e osannati. Il successo è così bello come se lo immaginava?

[GPG] «È stata più bella l’attesa… Sinceramente, tra la vittoria di Dublino e quella di Liverpool, non ci ho visto molta differenza, non ho provato emozioni troppo diverse. Una sola: che avevamo attorno molta più gente felice. Prima per le strade di Dublino, poi a Bergamo che è saltata in aria per la festa… Ritrovarsi in mezzo a tanta gioia, sapere di aver fatto felici tante persone è stata una sensazione meravigliosa».

[LG] È stato più difficile ripartire nella stagione successiva?

[GPG] «Ho ha avuto la sensazione di un certo appagamento soltanto alla ripresa della preparazione e nelle prime partite. Ma era fisiologico un calo di motivazioni dopo il finale rovente di stagione da cui venivamo. Ma poi la squadra si è rimessa a lavorare bene come sempre».

[LG] Nel 2018 lei spiegava a Infinito: «Dare il massimo non significa avere la certezza di vincere, ma spesso accade». Dopo tanti anni all’Atalanta, riesce ancora a dare il massimo negli allenamenti?

[GPG] «Sì, perché considero ogni giorno diverso dall’altro, una nuova avventura, non la solita minestra. Cambio le parole da dire alla squadra, un allenamento, un video… Il segreto è avere grande passione per ciò che si fa. Vale nella vita in genere, se ci metti passione, ogni giorno è diverso dall’altro».

[LG] È cambiato in questi anni il suo modo di comunicare alla squadra e all’esterno?

[GPG] «I principi sono rimasti gli stessi. A cominciare dall’insofferenza per l’ipocrisia. Se vedo un problema, non lo evito, ma lo affronto, perché un piccolo problema trascurato diventa un grande problema. Se devo dire una cosa scomoda in conferenza stampa, la dico, anche costo di giocarmi qualche simpatia».

[LG] Nel 2018 osservava: «La sconfitta insegna».

[GPG] «Ne sono sempre più convinto. Esiste l’errore, mai il fallimento. La vittoria ti dà poco, la sconfitta ti mostra la strada per migliorare. Lo sport insegna a perdere, non a vincere. Anni fa, Roger Federer ha fatto un discorso splendido in un campus universitario americano. Ha spiegato agli studenti: ‘Io sono stato uno dei tennisti più titolati della storia, ho vinto l’80% degli incontri disputati. Ma sapete quanti punti mi sono aggiudicato? Solo il 54%. Vuol dire che ho sbagliato quasi una pallina su due. Il campione non è quello che non sbaglia mai, è quello che impara dall’errore, lo cancella e pensa solo al punto successivo. Conta solo il punto che stai per giocare’. È una grande lezione».

[LG] Nell’intervista di sei anni fa, lei diceva anche questo: «A vincere senza pericoli, si trionfa senza gloria». In questi anni, i suoi giocatori le hanno mai chiesto di correre qualche rischio in meno e usare più prudenza tattica?

[GPG] «Se l’hanno pensato, non me l’hanno detto… Una delle più grandi gratificazioni che ho avuto dalla mia squadra è stata all’intervallo di Atalanta-Liverpool, ritorno dei quarti di finale di Europa League. All’andata avevamo vinto 3-0. A Bergamo stavamo perdendo 1-0 e avevamo rischiato di prendere altri gol, allora all’intervallo proposi: ‘Se volete, ci abbassiamo un po’ e li aspettiamo in difesa’. Non uno, tutta la squadra rispose: ‘No, continuiamo ad attaccarli’. Lo spirito che avevo educato, gli era entrato nel cuore. Non avrebbero potuto darmi una soddisfazione migliore».

[LG] Le appende ancora le frasi motivazionali in spogliatoio e le foto, tipo quella del branco di lupi?

[GPG] «Meno. Ma se incrocio qualche bella frase, la dico. In quel branco di lupi, il capo stava in coda per coprire le spalle ai compagni. Mi serviva per far capire alla squadra che il capo non è sempre quello che si mette davanti».

[LG] Oggi, nell’Atalanta, chi è il lupo che sta dietro? De Roon?

[GPG] «Non mi piace fare un nome e dimenticarne altri. Ho dei buoni lupi e la cosa più bella è che si passano l’autorità tra loro. I giovani lupi studiano, imparano e poi diventano capi».

[LG] Gasperini, Jannik Sinner non le sembra un po’ come la sua Atalanta? Ha talento, coraggio, attacca sempre e ha l’ossessione del lavoro.

[GPG] «Sinner è il prototipo dello sportivo ideale, perché è un ragazzo di valori, prima che di talento. Mi piacerebbe allenarlo, anche se non saprei cosa fargli fare con la racchetta… Spero di conoscerlo, magari alle ATP Finals di Torino».