Nella sua “teoria delle èlite” l’economista Vilfredo Pareto sosteneva che quasi tutte le rivoluzioni sono state un lavoro della aristocrazia, di una ricca minoranza, e non delle persone comuni. C’è però una rivoluzione che le grandi corporation, le poche aziende leader all’apice dell’economia, e i loro manager formati nelle blasonate business school, faticano ad abbracciare perché dovrebbero cambiare mentalità totalmente.

Ne è convinto l’economista e imprenditore belga Gunter Pauli, un’autorità mondiale in ambito di economia sostenibile, laureato in economia all'Università Sant'Ignazio di Loyola ad Antwerp, che con la sua Zero Emission Research Initiative (Zeri) ha messo in rete scienziati, studiosi, economisti impegnati a trovare soluzioni innovative alle più grandi sfide sociali progettando nuovi modi di produrre e di consumare. Pauli parla da Zermatt in occasione del convegno “Humanizing globalization” dove - come di rado accade ai congressi sull’economia - sono state presentate nuove scoperte, come i fogli fotovoltaici flessibili (non pannelli rigidi) e la connessione internet trasmessa dalla luce, il li-fi. Peraltro con investitori disponibili a dare un contributo immediato, di energie e capitali, per sviluppare alcune invenzioni. Invenzioni che probabilmente vedremo diffuse in modo capillare tra qualche anno. Pauli, tuttavia, non è soddisfatto di come sta andando l’economia mondiale e soprattutto di dove sta andando il business. Lui punta all’ottimo - a realizzare una rivoluzione su larga scala - e pensa che per ora, nonostante indubbi progressi in termini di cura dell’ambiente e risparmio energetico, siamo lontani dal riuscirci.

“Le grandi idee devono entrare nel mainstream – dice Pauli - Nei passati trent’anni abbiamo cominciato molte iniziative, molti progetti e buoni risultati. L'unico problema è che non abbiamo cambiato le statistiche: un recente rapporto delle Nazioni Unite dice che dopo molti anni è in aumento la popolazione malnutrita. E questo lo stiamo combattendo da quando è diventato un problema sensibile portato all’attenzione dal Club di Roma in quarant’anni di attività.E quindi che cosa è accaduto? Che ci siamo concentrati sulla urgenza di elencare i problemi ma non abbiamo abbracciato le innovazioni. Continuiamo con le monoculture, a sussidiare gli agricoltori, con la genetica modificata e con la chimica. Non siamo usciti da questo framework: bisogna fare qualcosa di veramente dirompente per cambiare lo status quo di oggi. Non è un problema di avere buone idee a sufficienza o abbastanza persone che le realizzino oppure il denaro per farlo. Non sembriamo essere capaci di raggiungere un punto critico affinché ci sia un momento trasformativo per la società e affinché questo si traduca nelle statistiche. Dobbiamo avere l'intelligenza di essere capaci di concentrarci su quello che funziona”.

Questo Pauli nel suo saggio “Blue Economy”, l’economia della rigenerazione, lo fa presentando 200 progetti implementati sui quali sono stati investiti 4 miliardi di dollari con la potenzialità di creare 3 milioni di posti di lavoro. Gli esempi sono notevoli dalla coltivazione di funghi dai fondi di caffè al trasformare le cave di pietra in cartiere, passando ai biofilm da stendere sui campi e che inibiscono i batteri dall’intaccare i raccolti perché carichi di molecole tratte dalle alghe. Invenzioni che fanno risparmiare denaro, incentivano il riuso degli scarti ed evitano l’uso della chimica sfruttando peculiarità naturali. “E’ stato fatto abbastanza - conviene Pauli - ma non ci si può accontentare del meno peggio, bisogna fare sempre meglio”. Si tratta di riscrivere i paradigmi che hanno guidato finora i sistemi economici.

“A meno che non si verifichi un cambiamento nel modello di business le attuali tendenze negative non possono essere scalfite – dice Pauli – Dovremmo passare da una logica di economia di scala verso una società che utilizza ciò che ha, soddisfa i bisogni fondamentali di tutti, con le aziende che intraprendono attività oltre alle strette sfere di competenza”. 

Hiroshi Sugimoto, Seascapes

Le grandi aziende si sono concentrate eccessivamente sulla riduzione dei costi e quindi hanno perseguito una strategia globale alla ricerca del luogo più economico e flessibile di produzione o di fornitura di servizi. Tuttavia, la spinta verso prodotti sempre meno costosi ha portato a una maggiore privazione di liquidità nelle economie locali, che hanno meno occupazione ma anche meno potere d'acquisto, portando così a meno circolazione di denaro nelle comunità e questo si traduce in una contrazione economica come si sta vivendo in numerose nazioni. Tutti i nuovi posti di lavoro sono generati in soli 10 paesi in tutto il mondo e il 40% della popolazione guadagna meno di 3 dollari al giorno. La catena del management è però carente alla base perché logica sottesa ai corsi di formazione dei dirigenti di azienda, i Master in business administration, è quella di fare soldi attraverso la riduzione dei costi di produzione e del personale, di valutare ogni risultato in termini di quote di mercato, di dominio sul concorrente, di premi, bonus e con assoluta dedizione al “core business”, ovvero al fare una cosa sola. Il risultato è stato il collasso economico mondiale del 2008, quello che Pauli definisce il periodo della “red economy”, l’economia “in rosso”. Ma questo gioco competitivo viene ancora praticato dall’1 per cento delle compagnie dominanti, mentre il 99 per cento di piccole compagnie ha poche possibilità di sopravvivere.

“Se un’azienda, come un uomo, pensa di avere una sola opportunità di sviluppo diventerà frustrata e contrariata. Se invece riesce a vedere molte più opportunità risolverà più problemi in modo rilassato perché se una soluzione non funziona ne potrà cercare un’altra. E questo penso che abbiano bisogno i giovani imprenditori oggi”.

Pauli, classe 1956, papà di cinque figli, residente in quattro continenti, fluente in sette lingue, racconta di avere avuto uno dei momenti più importanti della sua vita quando, nel 1981, ha cominciato la sua prima attività importando per primo birra belga in Giappone: per oltre un anno aveva pensato che fosse la sua sola e unica opportunità solo perché ne conosceva altre. Dopo ha creato dodici compagnie, e non solo per esportare birra brassata dai monaci trappisti. “Quel business mi ha insegnato molte cose sulle vendite, la logistica e altro. Molto interessante. Ma soprattutto ho scoperto che c’erano molte altre opportunità che ho visto e ho colto”. Così Pauli ha creato la European Business Press Group e, nel 1986, ha cominciato a sviluppare database in partnership con la neonata Apple conoscendo Steve Wozniak, fondatore della compagnia insieme a Steve Jobs e Ronald Wayne. Poi ha creato Ecover, produttore belga di detersivi biodegradabili che utilizzano gli acidi grassi dell'olio di palma al posto dei tensioattivi petrolchimici. “Tutti settori differenti dalla birra devo dire ma la birra mi ha insegnato a vedere delle nuove possibilità”. 

In questa scoperta natura è maestra per l’imprenditore. Osservando la natura è facile capire che gli ecosistemi evolvono verso livelli sempre più elevati di complessità grazie al contributo della competenza di tutti gli attori. Passeggiando per un bosco noteremmo un antico pino o una volpe rossa, ma non ci sfuggirebbero nemmeno le centinaia di altre specie difficili da vedere a un colpo d’occhio ma che sono essenziali per mantenere in vita l’intero ecosistema. Per questa ragione la natura va verso una complessità e diversità sempre più elevate. Allo stesso modo se gli imprenditori operassero non solo su un livello ma su vari livelli dalla sfera scientifica a quella logistica, culturale e fisica si aprirebbero opportunità multiple. Così come possono essere multipli i guadagni conseguenti. Inoltre, nonostante gli scettici possono pensare che gli ecosistemi sono un esempio difficile da imitare per avere successo, in realtà gli ecosistemi naturali funzionano in modo da rendere improbabile il fallimento: raggiungono il livello autosufficienza perché quello che si produce viene riutilizzato e tutti gli attori agiscono come la mano invisibile del mercato di Adamo Smith perché marciano verso il migliore utilizzo e stanziamento delle risorse. La natura è quindi esemplare sia per gli imprenditori intesi come collettivo, portati a spaziare oltre il loro “core business” e a collaborare, sia per l’imprenditore singolo che può vedere in una più efficiente distribuzione delle risorse e nella ricerca della autosufficienza delle opportunità per moltiplicare i guadagni per sé e per altri all’interno di una filiera che altrimenti sarebbe inesistente. Il caffè è un esempio fenomenale, sul quale Pauli lavora da vent’anni , su come si può uscire dal proprio “core business” e creare l’abbondanza da uno spreco di un “rifiuto”.

Agli inizi di questo millennio il consumo di caffè è stato superato dal consumo di funghi. Ora sta emergendo una possibilità che aumenterà il volume di produzione di entrambi: i funghi coltivati sui fondi del caffè.

Da quando i chicchi lasciano la pianta e finiscono al bar solo lo 0,2 per cento viene consumato mentre il 99,8 viene scartato. Se consideriamo che il consumo mondiale di caffè è attorno ai 139 milioni di sacchi (un sacco pesa 60 kg) le biomassa sprecata viaggia sulle 25 milioni di tonnellate. Sia in campagna sia in città i residui di caffè possono essere utilizzati come sostrato per la coltivazione di funghi che a loro volta possono essere venduti per alimentazione umana o come mangime animale, potenzialmente triplicando i guadagni per i produttori di caffè. “E’ un business che sta andando molto velocemente ora. Ci sono almeno 5.000 imprese attive. E sta accelerando molto. E penso che in 20-25 anni probabilmente si arriverà a un milione di attività nel mondo. Sono molto felice che Lavazza sia stato il primo a sostenere la coltivazione di funghi sugli scarti del caffè. E’ un affare molto semplice, molto locale, a Roma potreste averne duecento. Tutti fanno soldi e producono cibo sano”. A dimostrazione che le grandi compagnie hanno una mentalità ristretta e concentrata sul taglio dei costi, dopo anni di ricerca, la Nestlé – il più grande produttore al mondo di caffè solubile che genera 3 milioni di tonnellate di residui – ha concluso che bruciare gli scarti di caffè (composti all’80% d’acqua) era la scelta ambientalista migliore, tanto che viene illustrata nei convegni internazionali come caso di successo della “green economy”.

Ma questo vuol dire fare “il meno peggio”, non “fare il meglio”, come dice Pauli come mantra della sua “blue economy”.

Se sia l’opzione migliore per Nestlé quella di bruciare i rifiuti invece di riutilizzarli per guadagnare tre volte sullo scarto bisognerebbe chiederlo ai suoi azionisti. Perché le compagnie non cambiano approccio? “Non ha importanza che abbia senso cambiare. Le compagnie esistenti vivono in un ‘corsetto’, una giacca stretta, dicono che se non tagli i costi non esisti più. Ma devono astrarsi da questa mentalità. L'abbiamo imparato da economisti, ma ci siamo dimenticati molte lezioni dell'economia: se vuoi avere una regione competitiva devi generare valore. Se hai un territorio ma il tuo focus è tagliare i costi, significa che stai togliendo soldi dalle tasche dei tuoi lavoratori, significa che anche tu stai diventando più povero. Come compagnia vuoi ridurre i costi per essere più ricco e competitivo? Ma se tutti cominciano a tagliare i costi avrai un territorio più povero proprio dove operi. E questa è la sfida che affrontiamo oggi: la gente ha capito che le multinazionali nel gioco mondiale hanno cominciato a tagliare i costi ovunque e, alla fine, generano povertà perché nel territorio non ci sono più guadagni. Questa è la ragione per cui io non mi concentro soltanto sulle opportunità, ma sulle opportunità particolari in un territorio”.

Richard Misrach Untitled (February 14, 2012 6:11pm), 2012

Guardarsi attorno è il consiglio più utile per governi e aziende. Se il Sudafrica avesse compreso che il miliardo di tonnellate di detriti depositati nelle miniere abbandonate negli ultimi due secoli potevano creare ricchezza con la carta ricavata dalla roccia, a Johannesburg probabilmente la disoccupazione sarebbe ai minimi. Si prevede infatti che entro il 2020 la richiesta globale di carta arriverà a 500 milioni di tonnellate, che continueranno a essere prodotte con fibre ricavate da alberi. La Cina inventò la carta due millenni fa, l’ha reinventata negli anni Novanta. A Taiwan gli ingegneri minerari, dopo dodici anni di ricerche, hanno presentato la carta ricavata dalla pietra che consiste nel mescolare un 20% di plastica riciclata con un 80% di pietre sgretolate senza bisogno d’acqua per ottenere un prodotto completamente riciclabile. In Cina cinque società stanno usando questa tecnologia. I signori delle cartiere non ne sarebbero contenti, ma se la tecnologia fosse dispiegata a livello mondiale, il vero beneficio lo avrebbe il pianeta perché si libererebbero ettari di terra occupata da detriti inutilmente.

In Cina lo fanno a una velocità molto rapida anche per la Cina stessa. L'Europa invece sembra volere continuare con pini geneticamente modificati e alberi di eucalipto non indigeni. Questo non ha senso – dice Pauli - Se proprio vuoi usare un arbusto perché non usi il bambù? Per ettaro e per anno ottieni sessanta volte tanto da quanto ottieni da un pino. Sessanta volte tanto: è una cifra che dovrebbe provocare una reazione nella mente di qualsiasi uomo che è anche homo oeconomicus. E qui che abbiamo bisogno di riflettere: avere chiaro dove stiamo andando con pragmatismo e guardandoci intorno. Se possiamo fare la carta dalle pietre, ad esempio con i rifiuti accumulati in oltre duemila anni con il marmo in Italia, e usare i detriti gratuitamente, produrre senza bisogno di acqua, perché non lo facciamo?”.

La forza della Blue Economy è anche che reintroduce i soldi nell'economia locale, e contrariamente alla credenza tradizionale, offre prodotti di alta qualità a un prezzo più basso. Quando la catena di approvvigionamento globale del cibo implica che fino al 90% di tutto il valore aggiunto generato nei supermercati viene speso per il trasporto, se quasi nessun trasporto fosse richiesto, i costi si ridurrebbero, i margini aumenterebbero e i prezzi al consumatore verrebbero abbassati. Per farlo però, avverte Pauli, bisogna avere un alto livello di conoscenza del proprio territorio, sia dei suoi vantaggi sia dei suoi limiti. 

“Guardiamo Zermatt – dice Pauli affacciandosi dalla camera di albergo sul maestoso picco del Cervino – hanno costruito una rete idroelettica che attinge acqua direttamente dai monti e il 70 per cento dell’elettricità arriva da quell’acqua e il 20 dal riuso dei rifiuti. Si sono guardati intorno e si sono chiesti: cosa abbiamo? E l’hanno trasformato in un servizio per le persone. Se una grande quantità di energia è prodotta localmente significa che la stessa porzione di denaro resta nel circuito locale: hanno un’economia vivace e possono restare relativamente isolati con un numero limitato di turisti perché non avrebbero abbastanza energia. Conoscono i vantaggi del territorio e i suoi limiti. Quanti governi guardano alle risorse in questo modo?”, chiede Pauli.

La logica in cui è stata concepita la globalizzazione – libero mercato, bassi prezzi e bassi salari, rapida circolazione dei capitali finanziari – secondo Pauli “non è più in contatto con la realtà”. “Secondo me uno dei migliori esempi nel mondo di quale sia l’approccio più corretto oggi è il Salone del Gusto – che Pauli ha visitato a fine settembre prima di raggiungere Zermatt – Come è riuscito a Carlo Petrini riunire rappresentanti da duecento paesi a Torino a parlare di cibo locale, sano, tradizionale. E’ straordinario: significa che alle persone interessano le produzioni locali e vediamo una ‘rivolta’ verso simboli della globalizzazione come gli hamburger o il caffè di Starbucks. Ma quello che è più importante è che c’è una corrente carsica nel mercato per cui le persone veramente vorrebbero mangiare una mela prodotta in loco: sanno che una mela piemontese ha venti volte e più sostanze nutritive di una mela cilena che ha fatto un lungo viaggio prima di arrivare a tavola e non ha più sostanza, ed è per questo che sono così economiche. Se l supermercato venissero vendute non al chilo ma in base ai nutrienti che contengono la prospettiva del consumatore cambierebbe”. Anche se oggi si sta diffondendo un sentimento contrario alla globalizzazione, dagli Stati Uniti all’Europa, che la politica cavalca, Pauli ritiene che ci sia una differenza essenziale tra il protezionismo, che alla fine ricade sul consumatore, e guardarsi dentro e trasformare l’economia locale. “Non abbiamo bisogno di barriere tariffarie, abbiamo bisogno di scoprire quello che abbiamo. Se penso che alluminio e acciaio straniero stanno invadendo il mio paese e alzo le tariffe all’importazione così le mie produzioni sono protette, non capisco che farò un danno ai consumatori perchè aumenteranno i prezzi. Non è la soluzione. Quello di cui abbiamo bisogno disperatamente è capire cosa hanno le nostre città, le nostre provincie, i nostri paesi che ci permettono di avere di più con quello che abbiamo. Abbiamo una grande varietà di opportunità e dobbiamo guardarci attorno. Se noi vogliamo sempre di più dobbiamo prima chiederci “quanto è abbastanza”: dal momento che la terra è limitata se vogliamo più di quello che abbiamo dovremo prenderlo a qualcun altro. Ce lo dobbiamo chiedere in Europa, Stati Uniti, Giappone e presto in Cina. Non abbiamo bisogno di proteggerci dall’esterno. Noi non siamo contro la globalizzazione – conclude Pauli - ma siamo a favore del riuscire ad assicurarci che rispondiamo ai bisogni delle persone sul territorio. E questo lo possono fare solo gli abitanti: non si può chiedere al presidente degli Stati Uniti di prendersi cura della Sardegna. Dobbiamo ritornare a un nostro livello di responsabilità e capire quali opportunità abbiamo per migliorare la nostra vita”.

Nel 1984 Pauli stava osservando il bacino dell’Orinoco in Colombia, dove l’habitat naturale era stato distrutto dall’allevamento intensivo di bestiame, e si domandava come potere rigenerare la foresta. All’epoca sembrava fantasia. Ma oltre venti anni più tardi, nel 2009, allo stesso posto la foresta era tornata rigogliosa. Il numero di specie di piante era passato da 17 a 256. E allora l’impossibile si era trasformato in possibile. E’ anche questa la lezione migliore che imprenditori, economisti, e governanti dovrebbero trarre dal professor Pauli.