Era una pasticceria elegante, nella via principale di Alba: in una sera dell’autunno 1945, appena finita la guerra, Pietro Ferrero vi creò un surrogato, che definì il «dolce degli umili». Era a base di nocciole, cacao, zucchero e oli vegetali e fece la fortuna della sua famiglia, di un’intera città e delle colline di Langa. Lo battezzò Giandujot, rifacendosi al primo cioccolatino incartato, creato a Torino a metà Ottocento. Questo dolce, semplice ma geniale, frutto di tante ore di sperimentazione, è l’antenato della Nutella: un successo planetario, un mito che ha conquistato diverse generazioni, un driver di crescita costante per un gruppo dolciario saldamente al terzo posto nel mondo, con un fatturato globale di 10,5 miliardi di euro, 23 fabbriche e 40 mila dipendenti. Ormai la Ferrero, una delle poche grandi multinazionali rimaste con solide radici italiane è il modello ideale del nostro capitalismo familiare, basato sull’economia reale e non sulla finanza, lontano dai clamori della cronaca e dai pericoli della Borsa. Le vendite della famosa crema alle nocciole, che ha creato una nuova categoria  merceologica, valgono oggi 2,8 miliardi di euro, pari al venti per cento del fatturato globale Ferrero: se si mettessero tutti in fila i vasetti di Nutella prodotti in un anno, coprirebbero per 1,7 volte la circonferenza della Terra.

Come è potuto accadere? Qualcuno potrebbe ipotizzare che la risposta stia nell’effluvio inebriante di nocciole che manda in estasi chi solleva la pellicola di protezione del barattolo, oppure nella texture inimitabile che si avverte spalmando quella delizia su una fetta di pane croccante. Nutella è buona, unica, questo vi basti. Ma non è così. In un mondo così attento all’healthy food, dove i consumatori hanno un megafono per criticare i brand – per riprendere l’azzeccata metafora di Chris Anderson, direttore per un decennio della rivista Wired, che anzi scrisse: «The hants have megaphones», cioè le “formiche” – e le leggi del marketing tradizionale vengono superate con la velocità di un tweet, la Ferrero è riuscita a difendere da ogni attacco il suo marchio-bandiera e a farlo crescere, creando una vera e proprio brand community spalmata nei cinque continenti.

Ecco la prima lezione impartita dal barattolo creato nel 1964 da Michele Ferrero, il figlio del fondatore dell’azienda, un vero genio dell’imprenditorialità: le strategie di produzione, le linee di marketing e di comunicazione hanno sempre saputo adattarsi allo Zeitgest, lo spirito del tempo. Dunque l’innovazione che offre l’esempio di Nutella non riguarda soltanto la nascita di un prodotto che prima non esisteva, ma anche la capacità – pur restando paradossalmente sempre uguale a se stessa – di diventare un lovemark, secondo la definizione di Kevin Roberts, Ceo della Saatchy & Saatchy. Si mantiene up to date perché ha sostituito il ciclo di vita del prodotto con il ciclo di vita della sua promozione.

È un David Copperfield dell’arte dolciaria, un Gattopardo della pasticceria, un Houdini della golosità da mass market. Grazie a questa strategia i consumatori – spesso trasformatisi in Nutella lovers per un marketing spontaneo «many to many» – sono rimasti fedeli alla loro crema da spalmare, con un atteggiamento piuttosto raro per un prodotto alimentare. Steve Jobs, nel presentare le novità realizzate da Apple disse: «Nel nostro piccolo, noi renderemo il mondo un posto migliore».

I computer e gli smartphone di Cupertino furono percepiti come la possibilità di essere sempre collegati con l’informazione e gli amici, prima ancora che come status symbol. La visione di Pietro Ferrero e dei suoi successori, il figlio Michele e i nipoti Pietro e Giovanni, è sempre stata analoga: parlare ai consumatori solo con i propri prodotti, per distribuire - spalmare - un  po’ di felicità. Uno dei primi tv commercial dedicati in Italia a Supercrema, all’inizio degli Anni ‘60, aveva come sottofondo finale una canzoncina ritmata con questi versi: «Ferrero/davvero davvero/la nostra vita/più dolce fa».

Alla guida di questo «dolce impero» – dopo la scomparsa nel 2015 del padre Michele a 89 anni e la prematura morte in Sudafrica del fratello Pietro nel 2011 – , è rimasto Giovanni Ferrero, 54 anni, studi di marketing negli Stati Uniti: nell’headquarter del gruppo in Lussemburgo si avvale di circa 700 collaboratori che seguono le strategie dell’azienda sui vari mercati. Nell’intervista rilasciatami per il libro Mondo Nutella – pubblicato da Rizzoli Etas nel 2014 e tradotto in inglese, olandese, russo –, Giovanni Ferrero spiega che Nutella punta a una crescita molto forte fuori dall’Europa, dopo i successi in Italia, Francia, Germania, e i recenti ottimi risultati negli Stati Uniti e in Russia lo dimostrano. Presentando il libro – un’inchiesta su 50 anni di innovazione, per un volume non aziendale ma scritto con dati certificati – ho trovato a Mosca come a New York lo stesso entusiasmo per questa crema da spalmare da parte di blogger, attori, giornalisti e opinion leader convenuti a Eataly Downtown in Manhattan o in un locale italiano alla moda a Patriarshy Prudy, quartiere moscovita alla moda.

Ciò dimostra come Nutella sia oggi un medium, ovvero un agente di socializzazione, perché non soddisfa soltanto bisogni nutrizionali o esigenze sensoriali, ma genera stati d’animo nel consumatore, instaurando con lui una forma di intesa. Lo constato spesso, ogni qual volta racconto a qualcuno di aver scritto più di un libro sulla Nutella: il suo viso si illumina e con un sorriso spontaneo esclama «Ah, Nutella…». In questa gioiosa reazione sono condensati oltre cinquant’anni di investimenti da parte di Ferrero, in un efficace marketing mix ancorato a tre certezze immutabili: il gusto e la texture, raggiunti grazie alla «ricetta segreta» e a una lavorazione attenta alla qualità e alla freschezza delle materie prime; il vasetto dalla forma sinuosa che in azienda viene definito Pelikan perché simile alla boccetta di inchiostro per le penne stilografiche; il logo del marchio su fondo bianco abbinato quasi sempre al pane e alle nocciole.

Nutella non divenne subito un mito. Nel 1964 Michele Ferrero ebbe la felice intuizione di un brand naming davvero internazionale, perché la parola nocciola suona hazelnut in inglese, nuss in inglese e noisette in francese: così unì quella radice con il dolce suffisso ella. Fece testare il nuovo marchio con un’indagine di mercato europea da Giampaolo Fabris e si scoprì che funziona in tutte le lingue. Le prime pubblicità suggerivano alle mamme che quella era una «delizia da spalmare sul pane» per la merenda dei loro figlioli: convincendole sulla bontà e sul potere nutritivo di quella «conserva alimentare», finalmente il cioccolato fu sdoganato nelle case degli italiani. E Nutella per la generazione che ha fatto il ’68 e che ha amato i Beatles e i Rolling Stones è divenuta lentamente una madelaine proustiana, un ricordo d’infanzia da riportare in tavola per la colazione familiare.

La svolta avvenne quando Nutella era ventenne, nel 1984. Un giovane Nanni Moretti la trasforma in un’icona del desiderio, con una mirabile breve scena del suo film Bianca, rimasta nell’immaginario di noi baby boomer: il protagonista della pellicola, interpretato dallo stesso regista, è un professore in crisi d’amore, che supera le sue ansie notturne, in cucina, solo e nudo, mangiando pane spalmato di crema alle nocciole (senza il marchio) da un enorme barattolo alto un metro. È una forma di bulimia consolatoria che trasforma Nutella in un «blob buono», come ebbe a scrivere il semiologo Omar Calabrese. Dopo quella citazione morettiana, in Italia e in Europa, si scatena il diluvio di interpretazioni artistiche: Riccardo Cassini, oggi affermato autore di Fiorello, Panariello, Conti, pubblica nel 1993 il suo libretto di satira in latino maccheronico dal titolo Nutella Nutellae, poi arrivano le canzoni di Giorgio Gaber e Renato Zero, al Palazzo dei Diamanti di Ferrara e al Carrousel du Louvre vengono allestite mostre d’arte con pitture, sculture, disegni ispirate al mitico vasetto. Gli anni ’80 e ’90 furono un po’ «subìti» dalla Ferrero, che quasi non si accorse di avere tra le mani un mito, almeno fino all’invenzione del loro pay-off più noto, quel «Che mondo sarebbe senza Nutella» creato nel 1994 dal pubblicitario Fulvio Nardi, titolare della “Agenzia No”, stimolato dall’intuizione di un ragazzino.

La seconda vita di Nutella, dopo quella televisiva passata attraverso innumerevoli spot – a volte un po’ “didattici” e banali, a volte più creativi – è quella digitale, che prende le mosse nel 2003 da una brand community nel sito MyNutella.it che in qualche modo anticipa Facebook, regalando sul web uno spazio personale ai fan della crema da spalmare, fino a raggiungere 150 mila utenti. Su Internet la spontaneità dei “naviganti” si è espressa per anni con dichiarazioni d’amore (a volte magari persino smodate) verso il marchio, che poi dai 2010 si è incanalata sulle pagine ufficiali di Nutella nel social network creato da Mark Zuckerberg: oggi i fan su Facebook sono oltre 31 milioni in tutto il mondo. Infine la grande operazione mondiale per celebrare i cinquant’anni di Nutella – con eventi nelle capitali dei cinque continenti e un sito ricco di contenuti spontanei dei consumatori, Nutellastories.com –, fu un piccolo capolavoro di social media strategy.

Tra i valori dell’azienda ci sono il rispetto dell’ambiente, una corporate social responsability che crea aziende “sociali” nel mondo (Ecuador, India Sudafrica), una divisione agricola per le nocciole con piantagioni nel sud del mondo per averle sempre fresche (Cile, Sudafrica, Australia), un legame ai valori del capitalismo familiare e della Old Economy. Ma per tutti Nutella resta un esempio di Made in Italy di successo, al quale forse ci si potrebbe ancora ispirare per un rilancio della nostra economia.