Marco Bentivogli, 49 anni, è un sindacalista d’avanguardia, non solo nell’Italia dove prevale la retorica dei diritti acquisiti, lo sarebbe anche a livello europeo. E’ durissimo nelle vertenze, davanti in tutte le mobilitazioni ma sempre capace di proposta. Guida i metalmeccanici della Cisl con lungimiranza, in particolare nella storia recente in cui Fiat è diventata mondiale, riuscendo a mantenere la produzione in Italia, seguendo la linea riformista del suo sindacato e che riuscì a convincere da Pomigliano in poi a convincere lo scomparso Sergio Marchionne. Nei metalmeccanici ha battuto nelle fabbriche e nella contrattazione e sui media da un lato il sindacalismo reazionario di Landini, e Salvini negli scontri televisivi sui migranti.

"Contrordine Compagni, manuale di resistenza alla tecnofobia per la riscossa del lavoro e dell’Italia” (Rizzoli) – il suo ultimo libro sul rapporto tra tecnologia e lavoro ricorda perché la transizione tecnologica è un fenomeno che si deve governare. A tal proposito, nel febbraio scorso, ha avuto uno scontro dialettico con il capo marketing del Movimento 5 stelle, Davide Casaleggio, in occasione di un convegno su "Futuro del Lavoro” ospitato dal Corriere della Sera a Milano. Casaleggio sosteneva che le macchine porteranno gli esseri umani a lavorare sempre meno, e l’umanità sarà messa in panchina dai robot.

Chiediamo a Bentivogli perché quella teoria è fallace e, probabilmente, controproducente per la creazione e la conservazione di posti di lavoro. "Quella a cui stiamo assistendo non è una semplice rivoluzione. Quello che stiamo vivendo oggi è il terzo balzo in avanti dell’umanità e Davide Casaleggio ha ragione quando dice che la crescita della tecnologia è esponenziale, che non è una delle tante opzioni possibili e che non è nemmeno rallentabile. Nella prima età delle macchine, la tecnologia aiutò a superare i limiti della potenza muscolare umana. In questa seconda età, lo stesso stimolo verrà applicato a superare le capacità cognitive degli esseri umani. La soluzione è potenziare l’umano, pertanto, investendo veramente sulla sua evoluzione cognitiva: da qui, ad esempio, la necessità del diritto soggettivo alla formazione lungo tutta la vita. Questo vuol dire occuparsi di futuro, non fornire date e dati sulla fine del lavoro. Un esercizio, questo, che ha la stessa attendibilità delle interpretazioni del calendario Maya sulla fine del mondo nel 2012. E se anche avesse ragione Casaleggio, se nel 2054 il lavoro scarseggiasse, non sarebbe un reddito di cittadinanza universale, la soluzione. Non è assolutamente possibile pensare ad un’umanità in panchina, non è sostenibile economicamente ed è una mostruosità a livello etico. Oggi l’unica cosa sensata e razionale da fare, non è quella di esercitarsi in vaticini sul futuro del lavoro ma è stare dentro il cambiamento e ove possibile anticiparlo attraverso investimenti e una revisione del sistema scolastico e formativo che oggi rappresenta tra i pezzi più ‘fordisti' del nostro sistema paese. Perché tra l’altro, nel futuro prossimo con molta probabilità  quello che mancherà non sarà il lavoro ma gente capace di ricoprire i 'nuovi lavori' che si creeranno . Per questo la fine del lavoro è semplicemente una delle tante fake news, forse la peggiore, perché gioca sulla paura delle persone e sul loro futuro. Perpetrata con la stessa retorica tecnofoba che vi fu tra la seconda e la terza rivoluzione industriale”.

Probabilmente questa prospettiva, apocalittica, ha portato il M5s a tentare di implementare in Italia un reddito minimo garantito attraverso il Reddito di cittadinanza, un esperimento che tuttavia ha avuto poco successo e, secondo Banca d’Italia, è oneroso e disincentiva il lavoro. Dopotutto però la platea di richiedenti non coincide con quei 5 milioni di poveri da sollevare dallo stato di indigenza. Né tanto meno gli italiani sono un popolo di fannulloni, la richiesta principale da chi ha manifestato, mentre il reddito di cittadinanza era in gestazione, era quella di un salario mica di un sussidio. Ci voleva un anno vissuto pericolosamente per capirlo? E a che prezzo? "Che esista un problema di povertà nel paese non va nascosto. C’è un dato drammatico, tabù di media e politica,  1,3 milioni di bambini in povertà assoluta. Che diventano 2 milioni se prendiamo in considerazione l’indicatore di povertà relativa, stiamo parlando di un bambino su quattro.  A questo si aggiungono le migliaia di persone che nonostante il lavoro non riescono ad avere un tenore di vita degno di un paese industrializzato come l’Italia, secondo in Europa e le migliaia di giovani disoccupati e neet di cui abbiamo purtroppo il record negativo in Europa. Il Reddito di cittadinanza in questo senso come strumento per combattere la povertà e coadiutore delle politiche attive non è sicuramente la risposta. Esisteva già uno strumento il Rei (Reddito d’Inclusione)  che era un attivatore sociale combattendo da una parte la povertà ma attivando le persone. Il Reddito di cittadinanza è stato invece uno strumento pensato con un orizzonte di capitalizzazione del consenso a breve termine in vista delle scadenze elettorali e non uno strumento di lunga veduta politica. Le politiche sulla povertà e sul lavoro oggi si fanno anche pensando a riforme come quella del sistema scolastico ed educativo. Le povertà oggi sono di vari tipi, la 'povertà formativa' si riverbera sulla vita delle persone che avranno meno opportunità di lavoro e soprattutto di lavoro di qualità e ben pagato. Su questo, le scelte dell’attuale governo vanno invece in tutt’altra direzione, basti pensare alla riduzione delle ore sull’alternanza scuola-lavoro uno strumento che stava dando risultati interessanti, ma che il governo ha pensato di depotenziare”.  Ma cosa significa fare circolare l’idea che la risposta alla transizione tecnologica nel lavoro sia quella di un sussidio perpetuo?

“Significa, come ho appena detto, far circolare una cultura pericolosa, quella dell’assistenzialismo. Un male sociale di cui l’Italia specie nel Mezzogiorno è già abbastanza compromessa.  Un paese come il nostro che continua a invecchiare e che come ho detto ha il record in Europa di giovani neet dovrebbe mettere in campo riforme politiche di ampio respiro che guardino ai megatrend  per i prossimi 30, 50, 100 anni orientando le politiche di sviluppo e non alle prossime elezioni".

La cultura della decrescita, se così la si può chiamare, è quello propagandata dal M5s – con blocco delle opere come il tunnel di base per la ferrovia Torino-Lione e altri siti energetici e industriali –, tuttavia alle elezioni europee il partito di Casaleggio è uscito molto ridimensionato rispetto alla Lega. Un disastro elettorale conferma che la decrescita è stata sconfitta? "La decrescita felice teorizzata da Latouche a cui si ispira il M5S fa parte del pantheon ideologico del Movimento, una sorta di dogma che però  non trova alcuna risposta concreta alla realtà a partire dallo stesso Movimento che invece da esempi che vanno in tutt’altra direzione. Se usassi il loro  codice di linguaggio populista, direi che Beppe Grillo a Casaleggio, passando per Luigi Di Maio, mi pare che la decrescita sia predicata ma poco praticata, anzi hanno visto una crescita felice del loro reddito. La verità è che bisogna lavorare alla crescita ma che sia sostenibile sia sul piano sociale che ambientale, il resto sono sciocchezze. Oggi anche grandi fondi speculativi come Black Rock nel loro portafoglio incentivano e premiano le imprese sostenibili. Un indicazione abbastanza chiara su dove sta andando il mondo avanzato. Le decrescite in genere in tutta la storia dell’umanità sono state infelici e foriere di problemi sociali”.

Ormai dieci anni fa Bentivogli è stato un sindacalista che ha cercato di cambiare l’Italia insieme all’ad di Fiat Sergio Marchionne per superare le resistenze, in particolare della Fiom e di Confindustria, a introdurre un contratto per Fiat che poi dall’accordo di Pomigliano è stato applicato in tutti gli stabilimenti nazionali, un modello internazionale. La fusione tra Fca e Renault, con un coinvolgimento opportuno di Nissan, già partner dei francesi, è stato un tentativo di creare una grande alleanza mondiale, è durato poco, due settimane dall'annuncio del 27 maggio per opposizione del governo francese e relativo ritiro dell'offerta da parte di John Elkann presidente di Fca ed Exor, la holding che la controlla. Eppure Fca ha lasciato le trattative da parte forte dell'accordo e potrà avvicinarsi ad altri partner, magari i corani di Hyundai, con un approccio costruttivo - a differenza di Renault che, data la presenza dello stato francese nell'azionariato, avrà probabilmente più difficoltà a creare alleanze. Se Fiat ha occasione di rilanciarsi attraverso fusioni lo deve anche alla rivoluzione di Marchionne? "In questi anni, di Fiat si è discusso e narrato molto in Italia con categorie più utili a descrivere la cronaca rosa che una grande vicenda industriale. Troppo spesso si passa dall’elogio all’azienda a una generalizzata demonizzazione di quello che hanno fatto i sindacati. Quegli accordi, condizione per tornare ad investire in Italia, sono costati aggressioni e assalti alle nostre sedi, e dirigenti messi sotto scorta. Per cosa? Forse per avere salvato il settore. Un altro abruzzese come Silone diceva giustamente che le istituzioni e le loro opere le fanno le persone. E questa cosa l’ha fatta Marchionne con una parte del sindacato contro tutti".

Il tentativo dall'alleanza era lì a dimostrare che è possibile superare l'ideologia protezionista e creare dei campioni transanazionali. La sua fine prematura per via delle condizioni poste dallo stato francese che non voleva diluire la sua quota in caso di fusione a tre con Fca e Nissan e la volontà di difendere i posti di lavoro in Francia ha invece dimostrato che non è facile superare gli interessi nazionali soprattutto quando si parla di fusioni paritetiche. Ma serve sempre lo Stato per tutelare gli interessi di lavoratori e imprese? 

«La vicenda della fusione di due grandi gruppi dell’automotive come Fca e Renault, con Nissan-Mitsubishi, avrebbe dato vita al primo gruppo al mondo per produzione e tecnologia dell’automotive, spostando l’asse della produzione e della tecnologia a livello globale in Europa. Era una partita importante e delicata, che nel nostro Paese significa qualcosa come 2/3 punti di pil (senza calcolare componentistica) oltre che migliaia di posti di lavoro diretti e indiretti. E mentre la Francia chiedeva rassicurazioni sui posti di lavoro che avrebbe conservato sul suo territorio anche in virtù della partecipazione azionaria in Renault, in Italia il governo è stato del tutto latitante e ha dimostrato la totale inadeguatezza dell’attuale esecutivo, su dossier così importanti per il lavoro e l’economia della nazione. Ora questo non significa che  c’è bisogno di più Stato, nel nostro Paese dove c’è stata a partecipazione pubblica la storia ci insegna come siano andate a finire le partecipazioni pubbliche, piuttosto quello che serve è una presenza dello Stato capace di garantire un minimo di sicurezza e garanzia, specie su partite internazionali di questa portata.»

E ancora «Lo Stato poi deve garantire un’ecosistema in grado di creare le condizioni di competitività per le imprese, snellendo la burocrazia, oggi la tecnologia può essere un valido alleato, ridurre il costo dell’energia, rendere efficiente e rapido il sistema giudiziario ecc. Invece, spesso, questi punti sono palate di sabbia buttata negli ingranaggi delle imprese. La vicenda ex-Ilva è emblematica in questo senso. Ora mentre i sovranisti, a partire da quelli di casa nostra, continuano nella narrazione che chiusi dentro i confini nazionali saremo più felici, bisognerebbe ricordargli che settori come il metalmeccanico vivono per oltre il 50 per cento di export.  Oggi le catene di valore su cui si muovo le multinazionali e le grandi piattaforme digitali ignorano completamente i confini nazionali il mondo oggi è estremamente interconnesso e interdipendente. Ragionare in termini di chiusura e sovranismo oltre che sconveniente danneggia il paese e il suo benessere. La nostra politica lo ignora o fa finta. Anche i dazi e il protezionismo, dell’America di Trump in questo senso si muove più dentro la propaganda politica che fatti. Certo, poi possono esserci tecnologie e settori strategici come le tlc e la gestione dati delle grandi piattaforme e aziende digitali, su cui serve un presidio pubblico per motivi di sicurezza e democrazia».

Il mismatch di competenze e richieste delle aziende è un problema mondiale, secondo un sondaggio Manpower il 45 per cento delle aziende in 43 Paesi riscontra difficoltà crescenti nel trovare lavoratori con le giuste competenze. Eppure in Italia siamo in ritardo con aggiornamento programmi scolastici e con una ritrosia culturale per le mansioni tecniche. Cosa serve e come se ne esce? “Quello che mancherà in un futuro prossimo probabilmente non sarà il lavoro ma persone capaci di riempire i posti di lavoro che nel frattempo si saranno venuti a creare con le nuove tecnologie. Servirà un approccio esponenziale alla conoscenza. Chi ai miei tempi, negli anni ’90 del secolo scorso, frequentava l'università, sapeva che la metà delle cose apprese attraverso gli  studi di formazione accademica sarebbero state modificate nell’arco dei successivi 15 anni. Già oggi questo lasso di tempo si è ridotto a 6-4 anni ed è sempre più disallineato rispetto ai lavori emergenti. Dobbiamo riflettere se non sia migliore allora un approccio alla conoscenza 'just in time', cambiando anche il metodo di insegnamento. La tecnologia ha la potenzialità di insegnare in modo personalizzato e adattabile alla formazione dei singoli, anche se resto convinto sostenitore del fatto che serva comunque una conoscenza umanistica diffusa che formi le persone a una visione integrata e aperta, cui poi affiancare piani formativi personalizzati e continui just in time.  Per queste ragioni nell’ultimo contratto dei metalmeccanici ci siamo battuti anche contro buona parte degli imprenditori seduti al tavolo,  per far riconoscere il diritto soggettivo alla formazione lungo tutta la vita delle persone. Perché la formazione rappresenta al pari della sicurezza e del salario,  il diritto al futuro.

Forse vista la richiesta di nuove competenze e nuovi lavori è lecito dire che non c'è mai stato cosi tanto lavoro nel mondo, come scriveva l’Economist, perché potenzialmente le nuove mansioni sono decine e in America siamo vicini alla piena occupazione. L'Italia però è ancora una volta contromano, la disoccupazione è stabile sopra la soglia psicologica del 10 per cento, con quella giovanile in aumento, mentre nell’Eurozona è in calo. "Assolutamente si.  I dati che cita l’Economist sono ripresi dallo studio  del Word Economic Forum, questo 'cambiamento sismico' come è definito,  del mondo del lavoro sarà tutt’altro che negativo. Almeno in potenza: la rivoluzione digitale creerà più posti di lavoro di quelli che farà sparire. Già nei prossimi 5 anni l’economia 4.0 genererà 133milioni nuovi posti di lavoro spazzandone via 75 milioni. Il problema è che anche su questo i media italiani hanno dato ed enfatizzato solo il dato relativo ai 75 milioni di posti persi la dimostrazione che non solo la politica ma il Paese ha bisogno di ritrovare una sua dimensione che sia meno tecnofobica, e più propensa a governare questo cambiamento che ci piaccia o no arriverà. Anzi è già arrivato"