Viviamo indiscutibilmente nel secolo delle immagini in movimento, circondati da schermi, e grazie ai nostri device digitali siamo diventati tutti video-maker o editor, indipendentemente dalla provenienza e dall’età. Come sempre accade, il mondo dell’arte ha anticipato questa rivoluzione con la produzione di opere video registrate su videocassetta già a partire dagli anni Settanta, periodo in cui il MoMA di New York acquisisce Global Groove (1973), video-manifesto di Nam June Paik. L’arte diventa così protagonista delle ricerche più innovative a partire dalla fine degli anni Ottanta, fino al boom del digitale negli anni Novanta con le monumentali video installazioni. Tuttavia, l’esposizione massiccia di video in biennali e collezioni di importanti musei e fondazioni internazionali non rispecchia la presenza delle stesse in collezioni private e cataloghi delle aste di arte contemporanea. Difficile valutare se questo sia legato alla deperibilità degli originali, alla complessa riproducibilità dell’opera a causa del rinnovamento continuo della tecnologia, alla proprietà legale di qualcosa di immateriale o alla complessità di allestire in una casa, seppur molto grande, video con cui convivere quotidianamente.

Tutto ciò è stato superato brillantemente da Pamela e Richard Kramlich che vent’anni fa, nel 1997, commissionano agli architetti svizzeri Herzog & de Meuron, vincitori del prestigioso Pritzker Prize per l’architettura, il progetto di una villa di campagna di tre piani nella Napa Valley, concepita per presentare e fruire costantemente delle opere multimediali della loro collezione. La casa – nata da un complesso lavoro di discussione e sperimentazione durato diciotto anni, con dubbi e cambi di sede, interruzioni dei lavori legate alla crisi del tech e alla recessione post 11 settembre (Kramlich è un finanziere specializzato in investimenti nella Silicon Valley) – è oggi un unicum al mondo, costata molto di più dei dieci milioni di dollari preventivati sia per le tecnologie impiegate sia per i grandi scavi effettuati per realizzare uno spazio espositivo ipogeo adatto ad accogliere le opere. La luce non è stata l’unica sfida progettuale, il duo di architetti ha dovuto sperimentare materiali innovativi le cui capacità fonoassorbenti permettessero ai video di coesistere senza creare troppo “sound bleeding”. La casa offre un viaggio metaforico nel tempo: dalla luce degli spazi vetrati del piano terra su cui sono proiettati i video in una sorta di trasparenza visiva che permette alla natura circostante di filtrare sotto le immagini in movimento, fino a un piccolo padiglione vetrato in cima, nato come camera degli ospiti, ma diventato la camera dei signori Kramlich, e ai grandi spazi buoi sotterranei in cui numerosi lavori sembrano fermare il tempo in un costante presente. La collezione iniziata quasi per caso nel 1987 con l’acquisto per 350 dollari di una cassetta Betacam prodotta in edizione di 300 di The Way Things Go (1987) di Peter Fischli & David Weiss, vanta ora più di 150 opere video di artisti internazionali tra cui Mathew Barney, Dara Birnbaum, James Coleman, Christian Marclay, Reinhard Mucha, Bruce Nauman, Nam June Paik, Andy Warhol, e include lavori esposti alle recenti edizioni della Biennale di Venezia quali The Enclave (2012-13), un’installazione su sei grandi schermi di Richard Mosse, e They Come to Us without a Word (2015) di Joan Jonas.

Visitare la casa, aperta solo a trustees di musei, collezionisti amici e studiosi, è un’esperienza mistica, «non è uno spazio morto, le immagini in movimento creano una nuova realtà», per dirla con le parole di Pamela Kramlich. Diversa l’avventura di Isabelle e Jean-Conrad Lemaître che hanno costruito la loro collezione attraverso scelte coraggiose e attente agli sviluppi internazionali, sostenendo la creatività emergente attraverso l’acquisizione di opere prime e l’ideazione di premi per la videoarte e di festival specializzati. Sostenitori del Jeu de Paume di Parigi e della Tate di Londra, questi collezionisti giramondo hanno presentato la loro collezione in numerose mostre collettive in istituzioni quali Maison Rouge a Parigi, Frac PACA a Marsiglia, La Tabacalera a San Sebastian fino al museo Minsheng di Pechino.

La collezione nasce negli anni Novanta con un focus sul video, senza un preciso orientamento tematico o concettuale, ma rispecchiando i molteplici viaggi e le scoperte dei Lemaître, veri e propri talent scout di giovani artisti, oltre che la loro passione per il cinema e per l’arte e la possibilità in quegli anni di unire le due attraverso opere poetiche e sperimentali.

La raccolta dimostra da subito un’attenzione al fenomeno della globalizzazione artistica e alle questioni sociali, articolandosi a partire da importanti lavori come: Allora & Calzadilla, Returning a Sound (2004); Yael Bartana, Kings of the Hill (2003); Hassan Khan, Tabla Dub (2006); Christian Marclay, Mixed Reviews (American Sign Language) (1999-2001); Steve Mc Queen, Exodus (1992-97); Aernout Mik, Park (2002); Melik Ohanian Nightsnow (2001); Anri Sala, Déjeuner avec Marubi (1997); Catherine Sullivan, ‘Tis Pity She’s a Fluxus Whore (2003); Gillian Wearing, Boytime (1996). I Lemaître, trasferitisi da Londra a Parigi, presentano per i loro ospiti una selezione di lavori su un grande schermo in salotto, creando un ambiente aperto alla discussione e al confronto, lontano dall’atmosfera del museo. Nelle loro parole: «Il nostro interesse per i video continua a crescere, per diverse ragioni: il video è un mezzo espressivo del nostro tempo e ci piace che la nostra collezione rifletta la realtà in cui viviamo; il video sembra capace di esplorare i luoghi e trasformare le situazioni e noi vogliamo far parte di questa avventura. Il video pone il pubblico in molteplici ruoli contemporaneamente: lettori, osservatori e interpreti spingendo ciascuno a prendere una posizione. Ci piace il fatto che le opere video richiedano tempo, concentrazione e silenzio in contrasto con lo zapping affrettato e costante che è ormai parte della nostra vita quotidiana […]. Noi crediamo fortemente nell’esporre le opere della nostra collezione con prestiti a musei e fondazioni per tre motivi: tiene viva la collezione, offre agli artisti in cui crediamo importanti occasioni di visibilità e permette al grande pubblico di vedere video che diversamente sarebbero limitati a casa nostra. Comprare videoarte è per noi il modo di sostenerne la produzione e la diffusione». Nella loro filosofia la tecnologia e la sua rapida evoluzione restano strumentali a una migliore fruizione delle immagini. Esemplificativo in questo senso uno degli ultimi lavori acquistati, che va ad aggiungersi ad artisti quali Tacita Dean, Ryan Gander, Omer Fast e Atlas Group: il film corale di Clement Cogitore, Les Indes Galantes (2018), in cui arti performative, video e musica danno vita a un’opera immersiva dove passato e presente si compenetrano in maniera intelligente e provocatrice.

Casa Kramlich Foto courtesy © Marion Brenner

Più recente è la passione per il video dell’imprenditore tedesco Heiner Wemhöner. Avvicinatosi all’arte negli anni Ottanta con l’acquisizione di opere di pittori italiani scoperti nei suoi numerosi viaggi di lavoro, grazie all’amicizia con il noto curatore belga Jan Hoet a partire dagli anni Novanta segue si appassiona agli sviluppi della scena contemporanea tedesca e internazionale, appassionandosi collezionando in particolare di fotografia e installazioni, e dalla metà degli anni Duemila scopre la scena artistica cinese, nuovamente grazie ai suoi viaggi di lavoro, e allarga i confini della sua collezione.

Solo negli ultimi quindici anni si interessa alle opere audiovisive per «la loro capacità di riflettere su questioni sociali, politiche ed estetiche». La prima acquisizione video risale al 2010, un’opera di Isaac Julien, Ten Thousand Waves (2010), scoperta a Shanghai, il cui acquisto e che Wemhöner ricorda così: «Fino a quel momento l’idea di collezionare video mi sembrava assurda, ma quando ho visto questa installazione mi sono emozionato: come il modo in cui il lavoro riusciva a raccontare una tragedia in maniera così forte e sublime attraverso le immagini, mi è sembrato unico. Da allora seguo la ricerca di Isaac Julien con attenzione e oltre ad avere altre numerose sue opere, siamo diventati amici». 

Negli anni la collezione cresce e si trasforma, seguendo i viaggi e le curiosità del fondatore, rispecchiandone il gusto e l’intuito, e spesso prediligendo opere video caratterizzate da un forte impianto narrativo, tra cui i lavori New Women (2013) di Yan Fudong, Deep Gold (2013-14) e The Swap (2015) di Julian Rosefeldt (presentati nel 2019 a Palazzo Dugnani a Milano in occasione della mostra “Hypervisuality”). Parlando della sua collezione Un’opera a cui Heiner Wemhöner mi ha raccontato di essere particolarmente affezionato è Sea of Tranquillity (2010) di Hans Op de Beeck, acquisita nella sua interezza: oltre a un acquerello e all’installazione video, anche i modelli scultorei da cui è nato tutto il lavoro sono entrati in collezione, creando un insieme articolato e monumentale, dal grande impatto scenografico. La garanzia che quest’opera venga presentata come un corpus coerente nei musei e non venga smembrata, ben rispecchia la serietà del supporto agli artisti di questo collezionista, che si declina anche in altre iniziative quali il sostegno al museo MARTa di Herford con un premio biennale di 25.000 euro. Il legame con l’Italia resta importante per Wemhöner che ha recentemente acquisito Handle with Care (2016) del duo Masbedo, un’installazione video multicanale filmata all’interno dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e al Centro per la Conservazione e Restauro di Venaria Reale. L’unicità di questi luoghi, aperti per la prima volta a uno sguardo contemporaneo, rivela la materialità delle opere d’arte e i riti legati alla loro conservazione e al passare del tempo. Wemhöner racconta come sia rimasto affascinato dall’incontro tra scienziati e restauratori, tra modernità e tradizione che da secoli si confrontano con l’idea di creazione e distruzione al di là delle diverse prospettive culturali e dei diversi momenti storici. La sua collezione che continua a crescere e a cui presto spera di poter offrire uno spazio espositivo a Berlino, conta oggi più di 1.200 opere di arte contemporanea internazionale e viene è stata presentata in numerosi musei, accompagnata da importanti pubblicazioni che grazie a innovative APP permettono al pubblico di vedere gli stills da video animarsi inquadrando le immagini delle opere. Queste tre collezioni, non esauriscono il panorama internazionale, tuttavia offrono uno spaccato di come possano essere diverse le tipologie e le modalità del collezionismo contemporaneo e offrono a giovani appassionati lo spunto per avvicinarsi a questo mezzo espressivo capace di cogliere con lucidità le trasformazioni della società contemporanea.