Tutto cambia nel mondo post global, anche le abitudini a tavola. «Quest’anno, per la prima volta negli Usa si è registrato il sorpasso dei pranzi consumati fuori casa rispetto a quelli tra le mura domestiche». Basta questa traccia a stimolare la curiosità scientifica del professor Mario Deaglio, professore emerito di Economia Internazionale dell’università di Torino, ottima guida per i giornalisti ai tempi in cui dirigeva Il Sole 24 Ore, pur facendo argine ai difetti di una categoria per istinto votata alla ricerca della notizia a scapito del rigore. Fu così che il quotidiano della Confindustria si trasformò nella tribuna ideale per un’Italia industriale fino ad allora sommersa, più profonda, quella dei distretti, mentre sui mercati faceva il suo esordio il made in Italy.
Anche oggi la società, a dieci anni dal tracollo di Lehman Brothers, vive una profonda trasformazione che sta modificando il modo di vivere. «Il cambiamento delle abitudini riflette ovviamente il cambiamento della struttura sociale e una dinamica della spesa in evoluzione», spiega l’economista. «Dalla mensa della grande fabbrica al fast food, che sta all’alimentazione tradizionale come la catena di montaggio. Ma ora si sta affermando rapidamente il modello dello street food, una soluzione più flessibile nei tempi e nelle modalità, più adatta a una società che non risponde più a orari rigidi, eguali per tutti. Ma che, soprattutto, prevede che si possa tirare a sera con uno snack a basso costo, alla portata di salari più modesti, come si conviene nel tempo della precarietà.»
Non è il solo trend in atto. Anzi, a ben vedere l’economia globale è investita da un duello ideologico senza esclusione di colpi.
«In Europa vale la ricerca del cibo più naturale – se non più “genuino” – che si può, senza far ricorso ad additivi. In America la regola del less is more conduce al risultato opposto: cibo povero, ma arricchito da additivi chimici, vitamine e altri ingredienti che fanno inorridire il made in Italy».
Non è certo per caso, dunque, che la prossima edizione del Rapporto sull’economia globale e l’Italia – la ricerca del Centro Einaudi curata da Deaglio, la cui pubblicazione è prevista per il prossimo mese di febbraio – preveda un capitolo dedicato alla Rivoluzione del Gusto, segno tangibile di un’evoluzione economia e sociale che non si esaurisce nella rivoluzione digitale, come spesso siamo portati a pensare. È anche per questa ragione che abbiamo chiesto al professor Deaglio di aiutarci a scattare una prima fotografia, dedicata in particolare all’industria dolciaria, dell’agroalimentare in Piemonte: un settore solo all’apparenza tradizionale, ma dotato di quel dinamismo che altri comparti industriali o dei servizi stentano a ritrovare dopo la lunga crisi.
Possiamo dire che, a differenza di altre aree dell’economia regionale che stentano ancora a ritrovare il passo della crescita, nell’agroalimentare la svolta c’è già stata?
In realtà non parlerei di svolta, bensì di un’evoluzione maturata nel tempo. È da un pezzo che il settore alimentare ha trovato una sua dimensione vincente. Lo dimostrano vari fenomeni, non solo regionali. È tanto clamoroso, quanto istruttivo, l’esempio delle bollicine. Ormai, in termini di volumi, vendiamo più della Francia, anche se i mercati attribuiscono un prezzo più elevato ai prodotti d’Oltralpe. Ma è un esempio che possiamo applicare ad altre filiere nella nostra produzione. L’abilità dell’industria di trasformazione italiana consiste nell’aver raggiunto discreti, se non buoni, livelli qualitativi senza aver dimenticato le esigenze di prezzo dei mercati. Anche noi abbiamo eccellenze mondiali, per carità, ma la nostra forza sta nel saper vendere spumanti e prosecchi a prezzi relativamente contenuti, alla portata dei ceti medi o dei piccoli lussi che possono concedersi consumatori più modesti. La formula vincente è stata, dunque, prodotti buoni a prezzo buono. Ma, ovviamente, non è l’unica.
Livelli qualitativi almeno accettabili, spesso buoni, attenti alla politica del marchio, più che all’utile immediato. Che cosa ha consentito l’evoluzione virtuosa di questi anni?
A differenza di quanto avvenuto in altri settori della vita economica, l’agroalimentare ha avuto la fortuna. Anzi, la vera spinta è stata data dalla saggezza di non voler copiare gli altri. Lo sviluppo ha accompagnato, ma non imitato, le accelerazioni, non sempre virtuose, sperimentate in altri campi.
L’economia agroalimentare, insomma, non ha seguito il cattivo esempio dell’industria. È questo, che intende?
L’alimentare ha conosciuto uno sviluppo laterale, senza strappi. Prendiamo il caso dell’agroalimentare piemontese. È uno dei pochi settori che non ha conosciuto il trauma della catena di montaggio o dell’alienazione in fabbrica. O fenomeni drammatici, come il dramma dell’amianto. E, almeno fino all’epoca più recente, i fenomeni migratori sono stati assenti, o contenuti entro dimensioni facilmente gestibili. Non c’è stato neppure un conflitto tra generazioni: i più anziani hanno ceduto senza traumi la guida alle nuove leve, cresciute con un bagaglio culturale e una preparazione tecnica più adeguata. E questa staffetta ha permesso di traghettare un settore tradizionale, con un raggio d’azione limitato, verso la conquista dei mercati grazie al supporto di Internet. A differenza di quanto è successo in altri campi, lo sviluppo ha potuto contare su una dotazione finanziaria di base, adeguata ai primi investimenti. Ha giovato in questo caso la cultura del territorio, fatta di parsimonia tradizionale dei contadini combinata con un tessuto capillare di banche locali, dalle popolari al credito cooperativo, che ha fornito i mezzi iniziali e accompagnato i passi successivi.
E l’evoluzione continua, sia nel prodotto sia nelle modalità di vendita. Basti pensare agli sviluppi del marketing: un tempo, per esempio, si riusciva a vendere il Barolo. Poi si è passati a parlare di “quel” Barolo. Oggi si punta sempre di più sul brand, magari sotto un nome di fantasia, perché il rapporto di fiducia tra il produttore e il consumatore passa sempre dall’azienda, che si tratti di vino, biscotti o altro.
La formula virtuosa è il modello Alba, insomma: una provincia attiva e ricca, il luogo ideale per sviluppare attività industriale senza snaturare il rapporto con il territorio. È la regola seguita con grande successo da Ferrero, il gigante che oggi affronta in Usa una sfida, inedita per dimensioni e per complessità anche finanziaria.
Io credo che Ferrero avesse ormai esaurito i margini di crescita sui mercati tradizionali, e si sia così trovata di fronte a un bivio: o raddoppiare gli sforzi nel business di sempre, essendo anche disposti a pagare un prezzo alto pur di accelerare l’espansione, oppure diversificare gli investimenti, magari puntando su attività nuove e sfruttando i contatti di sempre sul fronte finanziario. Si è scelto di puntare, ancora una volta, sull’industria: non credo sia stata una scelta facile.
Questo solleva un altro problema: come espandersi sui mercati mondiali, dove la concorrenza è sempre più agguerrita. Soprattutto per le imprese che non hanno le dimensioni di Ferrero.
È stato molto utile il lavoro svolto dalle ambasciate: in questi anni si sono infatti messe al servizio del sistema agroindustriale, anche di quello di dimensioni piccole e medie. È stato un sostegno prezioso messo a disposizione di imprenditori che, da sempre, avevano agito su dimensioni regionali o poco più, e che invece si sono trovati ad agire improvvisamente su un mercato come quello cinese. Nel frattempo, anche se resta molto da fare, sono nate le piattaforme commerciali, indispensabili a questo fine. Penso a Eataly, in particolare.
Possiamo dire che il cibo salverà la nostra economia?
L’agroalimentare rappresenta il 15% circa del prodotto interno lordo. Una quota rilevante, ma non decisiva. Non possiamo fare affidamento solo sull’alimentare o, in senso più allargato, sull’economia basata sulla Terra e sulla sostenibilità. Ma è comunque un contributo importante, anche per la carica innovativa portata dalle nuove leve.